Il biogas brucia la campagna

di Carlo Petrini

Agricoltura industriale. Riflettiamo sull’ossimoro.

In suo nome, l’uomo ha pensato di poter produrre il cibo senza contadini, finendo con l’estrometterli dalle campagne. Oggi siamo addirittura arrivati all’idea che possano esserci campi coltivati senza produrre alimenti: agricoltura senza cibo.

Agricoltura che, se si basa soltanto sul profitto e sulle speculazioni, riesce a rendere cattivo tutto ciò che può essere buono: il cibo, i terreni fertili (che sono sempre meno), ma anche l’energia pulita e rinnovabile. Come il fotovoltaico, come il biogas.

S’è già parlato di come l’energia fotovoltaica possa diventare una macchina mangia-terreni e mangia-cibo. Se i pannelli fotovoltaici sono posati direttamente a terra e per grandi estensioni essi tolgono spazi alla produzione alimentare e desertificano i suoli fino a renderli inservibili. Allora bisogna dirlo chiaro: sì al fotovoltaico, ma sui tetti, nelle cave dismesse, lungo le strade. No a quello sul terreno libero.

Adesso poi è il momento delle centrali a biogas che sfruttano le biomasse, vale a dire liquami zootecnici, sfalci e altri vegetali. Questi materiali si mettono in un digestore, qui si genera gas che serve a produrre energia elettrica e ciò che avanza – il “digestato” – adeguatamente trattato poi può essere utilizzato come ammendante per i terreni.

Questi impianti sarebbero ideali per smaltire liquami (problema annoso di chi fa allevamento) e altri rifiuti biologici, integrando il reddito con una produzione di energia che può essere utilizzata in azienda o venduta. Se sono piccoli o ben calibrati rispetto al sistema chiuso dell’azienda agricola funzionano e sono una benedizione – esattamente come può fare il fotovoltaico sul tetto di un capannone o di una stalla.

Ma se c’è di mezzo il business, se si fanno sotto gli investitori che fiutano affari e a cui non importa che l’agricoltura produca cibo e che lo faccia bene, allora il biogas può diventare una maledizione.

Sta già succedendo in molte zone della Pianura Padana, soprattutto laddove ci sono forti concentrazioni di allevamenti intensivi. È una cosa che stanno denunciando alcune associazioni ambientaliste a livello locale e per esempio da Slow Food Cremona mi segnalano che nella loro provincia ormai la situazione è sfuggita al controllo. Tant’è vero che hanno chiesto alla Provincia una moratoria sull’installazione e autorizzazione di nuove centrali a biogas.

Che succede? Molti agricoltori, stremati dalla crisi generalizzata del settore, si trasformano in produttori di energia, smettendo di fare cibo.

In pratica si limitano a coltivare mais in maniera intensiva per farlo “digerire” dagli impianti a biogas. C’è anche chi lo fa solo in parte, ma sta di fatto che tutto quel mais non sarà mangiato dagli animali e quindi indirettamente neanche dagli umani. Gli investitori li aiutano, a volte li sfruttano.

Esistono soccide in cui gli agricoltori sono pagati da chi ha costruito l’impianto per coltivare mais: sono diventati degli operai del settore energia, altro che contadini.

Tutto è cominciato nel 2008 con la finanziaria che prevedeva un nuovo certificato verde ‘agricolo’ per la produzione di energia elettrica con impianti di biogas alimentati da biomasse. Impianti “piccoli”, di potenza elettrica non superiore a 1 Megawatt. Ma 1 Mw è tanto: ciò ha incentivato il business, perché a chi produce viene riconosciuta una tariffa di 28 cent/kWh, circa tre volte quanto si paga per l’energia prodotta “normalmente”. Ecco allora che il sistema degli incentivi, cui si uniscono quelli europei per la produzione di mais, ha fatto sì che convenga costruire impianti grandi e costosi (anche 4 milioni di Euro), che posso essere ammortizzati in pochi anni.

Soltanto nel cremonese nel 2007 c’erano 5 impianti autorizzati, oggi sono 130. E lì oggi si stima che il 25% delle terre coltivate sia a mais per biogas. In tutta la Lombardia si prevede che entro il 2013 dovrebbero esserci 500 impianti. Ci sarebbe da riflettere su quante volte un cittadino che versa anche le tasse arrivi a pagare quest’energia “pulita”, ma l’emergenza è di altro tipo: così si minacciano l’ambiente e l’agricoltura stessa. 

Primo e lapalissiano: si smette di produrre cibo per produrre energia.

Secondo: la monocoltura intensiva del mais è deleteria per i terreni perché deve fare largo uso di concimi chimici e consuma tantissima acqua, prelevata da falde acquifere sempre più povere e inquinate.

Senza rotazioni sui terreni si compromette la loro fertilità e si favorisce la diffusione di parassiti come la diabrotica, da eliminare con un’ulteriore aggiunta di antiparassitari. Se il mais non è per uso alimentare, poi, sarà più facile mettere due dosi di tutto invece di una, senza farsi tanti scrupoli.

Terzo: chi produce energia coltivando mais può permettersi di pagare affitti dei terreni molto più alti, anche fino a 1500 euro per ettaro, il che crea una concorrenza sleale nei confronti di chi invece ne ha bisogno per l’allevamento.

È lo stesso fenomeno che si è creato con i parchi fotovoltaici, dunque sta piovendo sul bagnato. A chi alleva servono terreni soprattutto per rientrare nella “direttiva nitrati”, che dovrebbe regolare lo smaltimento dei liquami in maniera sostenibile. Chiedete ai contadini e agli allevatori: i terreni non sono mai stati così costosi come oggi, e per un’azienda che già subisce i danni di un mercato drogato da speculazioni e imposizioni di prezzi bassi da parte del sistema distributivo può voler dire soltanto una cosa, la chiusura.

Ma andiamo avanti.

Quarto: gli impianti stessi, quelli da 1 Mw, sono grandi strutture e per costruirle si consuma terreno agricolo sacrificandolo per sempre.

Quinto: ci sono già le prime voci sulla nascita di un mercato nero di rifiuti biologici, come gli scarti dei macelli, venduti illegalmente per fare biogas.

Non andrebbero mai utilizzati come biomasse, perché ciò che avanza dalla “digestione” poi viene sparso per i campi come ammendante e in questi casi oltre a inquinare potrebbe anche diffondere malattie.

Il problema è la scala.

Diciamo chiaramente che in sé il biogas da biomasse non avrebbe nessun difetto. Ma se è realizzato a fini speculativi ed è sovradimensionato, se fa produrre mais al solo scopo di metterlo nell’impianto, se fa alzare i prezzi del terreno, lo consuma e lo inquina, allora bisogna dire no, forte e chiaro.

Da questo punto di vista sarà bene che le amministrazioni (comunali per impianti piccoli, provinciali per quelli più grandi) comincino a valutare i fini reali degli impianti prima di concedere autorizzazioni, e sicuramente questi problemi andranno affrontati e debellati con la nuova PAC, la politica agricola comune, che si è iniziata a discutere a Bruxelles.

Da un punto di vista umano capisco gli agricoltori che hanno intravisto con il biogas un modo per risalire la china di un’agricoltura industriale sempre più in crisi. Ma sono sicuro che ci sono altri modi di fare agricoltura, più puliti, diversificati, che puntano alla vera qualità. Questa agricoltura può essere molto remunerativa e dare futuro ai giovani, mentre è soprattutto quella di stampo industriale che sta collassando. Inoltre, prima o poi gli incentivi finiranno.

Il biogas con grandi impianti è una pezza sporca che alcuni stanno mettendo alla nostra agricoltura malata, ottenendo l’effetto di darle così il colpo di grazia.

Sarà molto difficile tornare indietro: i terreni fertili non si recuperano, le falde s’inquinano, la salubrità sparisce, chi fa buona agricoltura è costretto a smettere a causa di una concorrenza spietata e insostenibile.

Agricoltura industriale, che ossimoro.

Carlo Petrini

5 commenti

  1. Penso che ormai le banche stanno investendo solo in biogas. Hanno prestato un bel po’ di soldi per fare biogas per cui o gli si toglie potere o siamo davvero fregati poiché non perderanno mai l’occasione di fare guadagni.

  2. ..vorrei sapere se esite una stima del rendimento energetico di suddette centrali, al netto del consumo di carburante (gasolio)necessario a coltivare, raccoglie e stoccare il “combustibile” di queste centrali.

  3. Tutto condiviso, da Petrini all’intervento prrecedente…approfondiamo e documentiamo le percentuali degli scempi, quantifichiamo con dati l’insostenibilità di certe pratiche dell’agro-industria e diffondiamo anche quei casi, purtroppo non così diffusi, di buone pratiche …”buone”dal punto di vista di sostenibilità ambientale ,ecologica, economica e anche paesaggistica. Qui da me ho almeno un caso emblematico di buona prassi…documentiamolo e mettiamolo in rete. Dario

  4. Oltre al problema del terreno , nessuno si rende conto che per ogni ettaro , tolto alla coltivazione di frutteti, si perdono fra il produttore, i magazzini dove si lavora la frutta e l’indotto , circa 300 giornate lavorative .
    Bel risultato soprattutto con la crisi di lavoro che abbiamo in Italia .
    Vi dico questo perchè il comune di Faenza ha già approvato la costruzione di nuovi impianti di biomassa in mezzo ad una delle migliori zone di produzione di frutteti (pesche , nettarine , susine ecc.ecc.) , proprio Faenza che deve la sua ricchezza all’agricoltura e dopo aver puntato sull’industria si trova in una crisi paurosa .
    Da considerarae che nel territorio di Faenza ci sono già 3 mostri di biogestori , dove si brucia di tutto .Possibile che regione, provincia , comune e sindacati non abbiano calcolato la perdita di 300 giornate per ogni ettaro DISMESSO ???.
    Possibile che non si possano fare queste centrali in zone industriali o vicino a degli inceneritori???.
    No dobbiamo farle in zone per finire di distruggere la nostra ricchezza.
    Veramente una VERGOGNA .

  5. Petrini con grande intelligenza centra il problema. Che è quello di sviluppare forme di energie rinnovabili compatibili e sostenibili che si integrino con il ciclo agronomico e con l’ambiente. Abito a Cremona e faccio parte di alcune commissioni per il paesaggio di piccoli Comuni contermini. Di questi impianti ne abbiamo visti parecchi e, per quanto si tenti di mitigarne gli impatti, restano indigeribili per il nostro territorio. Le Relazioni paesaggistiche che li accompagnano, e che cercano di giustificarne l’inserimento nelle nostre campagne, sono solo un pietoso velo steso su effetti devastanti. I progetti di questi impianti sono standardizzati e sono uguali ovunque (altro che genius loci). Quando arrivano in Commissione paesaggio è sempre un problema. Alcuni Comuni decisamente e a ragione non li vogliono, altri sono a favore e (secondo varie interpretazioni che personalmente non condivido) pare non si possano diniegare in quanto equiparabili a impianti di “interesse pubblico”. Follia pura, in quanto significherebbe che li possiamo solo recepire. L’impatto di questi impianti sul paesaggio è tremendo ma il problema è ancora più serio per quanto riguarda le pesanti ricadute ambientali ed economiche (come benissimo descrive Petrini) su un territorio già molto depauperato dalle monocolture, da allevamenti intensivi, da soccide di varia natura. Aumenta il consumo di acqua e di prodotti chimici, le falde sono inquinate, spariscono siepi e boschi, arrivano nuove patologie. L’agricoltura padana è già in profonda crisi di valore e di valori. La risposta può essere la conversione ad impianti di questo genere (e per fortuna sul fovoltaico nei campi il governo Monti ha detto stop)? E’ tutto il contrario di ciò che servirebbe per avere cibo di qualità in un ambiente sano. Le associazioni degli agricoltori da che parte stanno? Interessa a qualcuno questo discorso di puro buonsenso? Dal punto di vista del paesaggio, anche mentale, penso non basterà nascondere (anche metaforicamente)questo obrobrio dietro una siepe di lauroceraso.

I commenti sono chiusi.