Terra Madre: solo riscoprendo il valore dei suoli agricoli si può salvare il paesaggio

Sono convinto amici miei, che sia necessaria una svolta epocale, uno di quegli avanzamenti che Franco Battiato chiamerebbe «evoluzione sociale», una rottura cioè di quello «stato di cose presente» che con tanto affanno tenta – giorno dopo giorno – di liberarsi di sé stesso, prigioniero dei suoi intricatissimi passati.

Ma prim’ancora che tutto ciò si renda possibile, a ormai pochi giorni dalla vaticinata «fine del mondo», si rende necessario arrestare quel riflusso distruttivo tipico di ogni epoca in cui nessuno sa più cosa fare e come farlo: le previsioni sul medio periodo non lasciano adito ad alcun dubbio e se non mi aspetto che le profezie di Nostradamus siano realmente così prossime a fare il loro corso, senz’altro i sintomi di un cambiamento climatico in atto – che ancora però può essere scongiurato – si fanno avvertire nitidi con ormai cadenza pressoché quotidiana in qualche parte del mondo.

Il sogno che – dacché sono padre – coltivo più di ogni altra cosa, è quello di lasciare ai miei tre figli un pianeta migliore di quello che è stato consegnato a me, e tante e tante volte ho dovuto compiere acrobazie intellettive di non poco conto per non cedere il passo alla rassegnazione… la rassegnazione al fatto che non si possa più fare, che ormai sia tutto pregiudicato e che non rimanga nient’altro che «salvare il salvabile» in attesa – magari – di una grande rivoluzione, da cui – se non è troppo tardi – far risorgere il genere umano come l’«araba fenice» dalle sue ceneri.

Poi ho toccato con mano Terra Madre ed ho compreso che esiste – non da qualche parte nel mondo, ma – disseminato per tutto il pianeta, il germe di un discreto presente che può farsi ottimo futuro prossimo e assurgere ad avvenire prosperoso; ho compreso cioè che la battaglia contro i mulini a vento che non ho mai smesso di combattere, per qualcuno altrove non è soltanto argomento di condivisione, ma anche e addirittura motivo di sopravvivenza quotidiana.

Ho visto cioè le Comunità del Cibo riunite una tantum tutte sotto uno stesso grande tetto ed ho realizzato che il segreto della sopravvivenza del consorzio umano sta tutta lì, nelle micro-economie che si fanno presidio di territori, restituendone la sovranità alle comunità locali, vigili e pronte a vendere cara la pelle per non vedersi strappare brutalmente ciò che a fatica hanno costruito, custodi di un equilibrio – ideale e materiale allo stesso tempo – intorno al quale hanno saputo far ruotare tutta la loro esistenza, sfuggendo la fame e la carestia, facendo rifiorire gli scambi economici periferici in fuga dalla furia accentratrice dei land grabber planetari, e restituendo alla natura molto di ciò che le appartiene e che un qualcuno ha impunemente pensato di strapparle.

Si può difendere allora il paesaggio nostrano, si può dare una risposta sensata, autorevole, determinata e implacabile alla sommatoria vettoriale delle voracità autoctone, o si tratta soltanto di qualche mero e velleitario esercizio mentale che la prima soverchiante promessa clientelare di mutamento d’uso del proprio podere agricolo in presella edificabile trasformerà in apatico e trascurabile ricordo?!?

Non sarà l’agricoltura intensiva a placare l’ira funesta del clima, non saranno i grandi trattori intenti a maltrattare i suoli, non sarà il tristo connubio fra le varietà ibride di sementi ed i pesticidi, non saranno le piantagioni sterminate ad assicurare all’umanità una possibilità di sopravvivenza, un cibo «buono, pulito e giusto» per gli anni a venire, ma la riscoperta della terra come valore aggiunto, come estensione stessa della propria umanità: non c’è modo migliore per rendere produttivo un terreno che coltivarlo se lo si sa fare o, altrimenti, farselo coltivare, se la natura non ci ha ancora eletti suoi «campioni».

Dovessimo censire anche i terreni agricoli in attesa di prendere il loro «ascensore sociale» ed essere prima o dopo urbanizzati anziché essere coltivati ora, in questo preciso istante, scopriremmo scenari a dir poco sconcertanti, scenari insostenibili ed incomprensibili se raffrontati alla fame di terra che pervade questo mondo: eppure intere aree rurali languono spopolate in preda alla più perniciosa dialettica che possa intercorrere fra uomo e natura… e non mi riferisco solo ai monti incustoditi e privati di una armoniosa attività di forestazione o ai colli un tempo sapientemente «terrazzati» ed oggi in stato di totale abbandono, di pista di atterraggio per mezzi agricoli cingolati o di autostrade di cemento per l’incontinenza ideo-fluviale, ma anche al piccolo e trascurato appezzamento dietro casa, al nespolo non più curato, agli asini, alle capre o alle pecore che – non pascolando più liberamente nei frutteti, nelle oliveti, etc. – non brucano più le erbe proliferanti ovunque incontrastate.

La necessità di mettere fine a questo che, prima di tutto, è un disordine intellettivo dilagante, una cicaleggiante arroganza subentrata al già infido cocktail di ignoranza, trascuratezza, mancanza di curiosità e voglia di scoprire ma, soprattutto, una malcelata e mai sopita tentazione di poter realizzare profitti facili, standosene comodamente in poltrona ad attendere un semplice (e – aggiungo – sconsiderato) atto amministrativo, è il primissimo irrinunciabile passo verso nuove frontiere, verso mete possibili e non più verso utopie imperanti e mai capaci di divenire progetto per un avvenire prosperoso.

Proviamo a crederci!!!

Alessio Niccolai