Lo “Sblocca Italia” considera di pubblica utilità, urgenti e indifferibili per decreto tutti gli interventi per ricerca di petrolio e metano, e per la rigassificazione e lo stoccaggio e il trasporto del gas. Il presidente del Consiglio l’aveva promessa ai “comitatini” ed è stato di parola: le maglie della valutazione d’impatto ambientale sono “allentate”. Dubbi, però, sulla costituzionalità della norme.
L’analisi di Pietro Dommarco, autore di “Trivelle d’Italia”
(da Altreconomia)
Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (la n.212/2014) del decreto legge n.133 del 12 settembre 2014 -meglio conosciuto come “Sblocca Italia”- il governo italiano ha deciso di fare un grosso favore alle compagnie petrolifere, attribuendo alle attività di rigassificazione e trasporto del gas in Italia e in Europa e a quelle di prospezione, ricerca ed estrazione di idrocarburi e stoccaggio sotterraneo del gas, “carattere di interesse strategico […] di pubblica utilità, urgenti e indifferibili”.
Infatti, gli articoli 36, 37 e 38 del capo IX riguardante “Misure urgenti in materia di energia”, più di ogni altra norma del settore upstream, sono stati scritti appositamente, ed in maniera stringente, per favorire la categoria. In un colpo solo sono state risolte tutte le paure delle multinazionali del petrolio e del gas: tempi lunghi per l’approvazione dei progetti, impedimenti ed opposizioni dei territori, lentissimo ritorno degli investimenti ed insostenibilità di infrastrutture dai costi elevati e scarsamente redditizi. In sostanza, lo “Sblocca Italia” ha come obiettivo il raddoppio delle estrazioni nazionali di idrocarburi -sulla falsa riga della Strategia energetica nazionale (Sen) varata dal governo Monti-, affermazione del proprio potere decisorio su tutti i progetti energetici considerati strategici – sulla falsa riga della modifica dell’articolo 117 della Costituzione, contenuto nel del Titolo V, oggi impantanatosi tra contrattazioni politiche e possibile incostituzionalità dovuta alla prevista applicazione della clausola di supremazia in esso inserita -, nonché l’aumento delle entrate fiscali dello Stato.
L’esclusione controllata delle royalties dal Patto di Stabilità in cambio dell’aumento delle attività petrolifere.
Il tentativo di svincolare dal Patto di Stabilità interno le royalties incassate dalle regioni dove sono in atto attività di estrazione di idrocarburi è partito dalla Regione Basilicata. Infatti, con Legge Regionale n.17 dell’11 luglio 2014, recante “Misure urgenti concernenti il Patto di Stabilità interno” il governatore lucano, Marcello Pittella, ha perseguito la strada della “sussistenza”, cercando di utilizzare liberamente per la spesa corrente, e senza vincoli, gli introiti petroliferi. Una legge che lo Stato ha deciso di impugnare il 10 settembre 2014 e che il governo Renzi ha pensato di riportare nell’impianto dello “Sblocca Italia” regolamentandola con l’articolo 36 ed a proprio vantaggio. Infatti, prevede l’esclusione dal Patto di Stabilità delle sole “spese sostenute dalle regioni per la realizzazione degli interventi di sviluppo dell’occupazione e delle attività economiche, di sviluppo industriale e di miglioramento ambientale nonché per il finanziamento di strumenti della programmazione negoziata nelle aree in cui si svolgono le ricerche e le coltivazioni di idrocarburi, per gli importi stabiliti con decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze da emanare entro il 31 luglio di ciascuno anno“. In sostanza un impegno di “autofinanziamento” deducibile dalle somme del Patto di Stabilità, ma solo relativo a trasferimenti in royalties riguardanti l’aumento delle produzioni di idrocarburi e per soli 4 anni (dal 2015 al 2018), comunque vincolati a successivi decreti dei ministeri competenti -da emanare entro il 31 luglio di ogni anno- e da investire anche nel settore petrolifero. Al momento, la Basilicata ottiene -in deroga- 50 milioni di euro sulle produzioni dell’anno corrente.
Trivelle, stoccaggi, rigassificatori e gasdotti. Come commissariare le Regioni.
Se l’articolo 37 dispone misure urgenti per l’approvvigionamento e il trasporto del gas naturale, attribuendo carattere strategico a tutti gasdotti nazionali ed internazionali, come il Tap (Trans adriatic pipeline), localizzati nel nostro Paese -nonché ai porti interessati da opere strettamente collegate allo sviluppo di progetti energetici strategici, come potrebbe essere Taranto con Tempa Rossa-, l’articolo 38 è una vera e propria rivoluzione, accolta positivamente da Federpetroli (Federazione internazionale del settore petrolifero) ed Assomineraria (Associazione mineraria italiana per l’industria mineraria e petrolifera). E non poteva essere altrimenti, perché vengono riportate in capo ai ministeri competenti le autorizzazioni ambientali per le concessioni offshore, mentre per quelle in terraferma si fa riferimento a generiche “intese” -in odore di illegittimità- con le Regioni interessate, tutte in seno ad un titolo concessorio unico (concesso dal ministero dello Sviluppo economico). Per le procedure di Valutazione d’impatto ambientale (Via) relative ad istanze di ricerca, permessi di ricerca e concessioni di coltivazione, invece, la competenza passa al ministero dell’Ambiente e non più alle Regioni. L’obiettivo è snellire il tempo delle autorizzazioni ed evitare impedimenti dai territori. Una modifica che potrebbe sconvolgere in breve tempo l’elenco delle istruttorie in corso perché -da una parte- lo “Sblocca Italia” fissa la data del 31 dicembre 2014 come termine ultimo entro il quale gli Enti locali devono chiudere i procedimenti Via aperti, pena il trasferimento degli stessi al ministero dell’Ambiente, e -dall’altra- offre la possibilità alle compagnie di richiedere l’assoggettamento al titolo concessorio unico delle istruttorie in corso. Sullo sfondo, agevolazioni economiche per nuovi investimenti -come quelli nel settore degli stoccaggi- e possibilità di porre il vincolo preordinato all’esproprio dei beni e dare effetto di variante urbanistica, dove necessario, alle autorizzazioni.
Paradiso per petrolieri.
Lo “Sblocca Italia” -che entro 2 mesi dovrebbe essere riconvertito il legge- potrebbe avere effetti immediati sui progetti in corso di valutazione presso le regioni, per la terraferma e per il mare. Tutte, nessuna esclusa, con la Basilicata al primo posto, seguita dalla Sicilia e, pertanto, dal possibile coinvolgimento delle Regioni a Statuto Speciale. Attualmente, sono circa un centinaio i progetti in corso di valutazione ambientale, tra permessi di ricerca, concessioni e stoccaggi. Se dovessero andare tutti in porto, magari in deroga ai poteri statali, la terra ed il mare delle regioni italiani potrebbero veder aumentare l’incidenza delle attività petrolifere sul proprio territorio, con percentuali preoccupanti: la Basilicata passerebbe da un 35% di territorio interessato ad un 64%, la Puglia dal 7% al 12%, la Sicilia dal 17% al 37%, la Calabria dal 7% al 14%, la Campania dal 6% al 14%, il Molise dal 26% all’86%, l’Abruzzo dal 26% all’86%, il Lazio dal 19% al 33%, le Marche dal 22% al 26%, la Toscana dal 16% al 19%, l’Emilia Romagna dal 44% al 70%, il Veneto dal 4% al 17%, la Lombardia dal 20% al 38% e il Piemonte dall’8% al 16%.
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INTERVISTA AL COSTITUZIONALISTA ENZO DI SALVATORE
Per capire di più sul decreto “Sblocca Italia” abbiamo interpellato il costituzionalista Enzo Di Salvatore, professore di Diritto costituzionale italiano e comparato presso la Facoltà di Giurisprudenza di Teramo, docente presso il Master di Diritto dell’Ambiente della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma “La Sapienza”.
Sblocca Italia. Trivelle in mare e trivelle in terraferma. Come valuta le modifiche apportate dal decreto alla normativa vigente?
Per molti aspetti, il testo del Governo non è affatto cristallino e resta discutibile la scelta di fondo di qualificare ogni attività e ogni impianto di interesse strategico, indifferibile e urgente. A mio parere, i problemi che il decreto pone in materia sono comunque di gran lunga superiori alle soluzioni che pretende di offrire. Una prima questione riguarda le royalties e l’allentamento del patto di stabilità interno. A tal proposito rilevano gli articoli 4, comma 6, e 36. In via generale, l’art. 4, comma 5, prevede che siano esclusi dai vincoli del patto di stabilità i pagamenti effettuati dagli Enti territoriali dopo l’entrata in vigore del decreto. Deve trattarsi di pagamenti relativi a debiti che gli Enti abbiano contratto prima del 2013. Questa esclusione opera per 200 milioni in relazione al 2014 e per 100 milioni in relazione al 2015. Ora, il comma 6 dell’articolo 4 stabilisce che dei 200 milioni previsti, 50 siano riservati ai pagamenti dei debiti delle Regioni che beneficiano di entrate derivanti da royalties per un importo superiore di 100 milioni di euro: è evidente che si tratti di una norma dettata in favore della Regione Basilicata. Per l’anno 2014, questo importo si riferisce solo ai pagamenti effettuati dopo il 12 settembre 2014. Esso però non riguarda i Comuni. Per questi, infatti, si applica la “regola” generale del comma 5 dell’art. 4. Ulteriori norme sono quindi ricavabili dall’art. 36. Qui si legge che gli importi esclusi dal patto di stabilità interno saranno determinati annualmente dal Ministro dello Sviluppo Economico. Essi si riferiscono solo a quattro anni (2015, 2016, 2017, 2018) e hanno ad oggetto solo la differenza tra quanto prodotto negli anni 2014, 2015, 2016 e 2017 e quanto prodotto nell’anno 2013. A patto, ovviamente, che vi sia stato un incremento della produzione e a condizione che le spese siano sostenute per interventi a favore della crescita economica. Al di fuori di questi casi, l’importo relativo all’esclusione delle spese dal patto di stabilità -sempre collegato all’utilizzo delle royalties- sarà determinato dalla legge di stabilità per il 2015. Compatibilmente con gli obiettivi di finanza pubblica. Detto questo, si può pensare che l’intera problematica possa appiattirsi intorno alle deroghe al patto di stabilità interno? Il decreto-legge – come si vede – non prevede né un aumento delle royalties né un aumento (o un diverso impiego) dell’imposta sul reddito delle società (IRES), versata dai titolari delle concessioni di coltivazione di idrocarburi.
Come la mettiamo con le Regioni a Statuto speciale? Rientrano nello Sblocca Italia? Quali sono i dubbi in questo senso?
Ci sono almeno due considerazioni che fanno pensare che il decreto si applichi anche alle Regioni a Statuto speciale. Per quanto riguarda gli idrocarburi, anzitutto la circostanza che l’art. 38 discorra testualmente di Regioni e di Province autonome di Trento e Bolzano: questo dovrebbe voler dire che la nuova disciplina si applica a tutte le Regioni. In secondo luogo, il fatto che la materia energia – come la stessa Corte costituzionale ha più volte chiarito – si aggiunge agli elenchi delle materie presenti negli Statuti delle Regioni ad autonomia speciale, applicandosi per queste la c.d. “clausola di maggior favore”. Secondo quanto previsto dall’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, fino all’adeguamento dei rispettivi Statuti, le disposizioni della riforma costituzionale del 2001 – dunque, anche quelle relative al riparto di competenza legislativa tra lo Stato e le Regioni – si applicano non solo alle Regioni ordinarie, ma, nelle parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite dai rispettivi Statuti, anche alle Regioni ad autonomia speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano. Poiché nei rispettivi Statuti non risulta considerata la materia energetica, ne deriva che anche questa sia attribuita alla competenza delle Regioni ad autonomia speciale. Con la conseguenza ulteriore, però, che ad esse – secondo quanto ritiene la Corte costituzionale – risultano applicabili anche i limiti stabiliti dalle leggi dello Stato. Vero è che un decreto-legge prescinde (o dovrebbe prescindere) dal riparto della competenza legislativa effettuato in Costituzione, in quanto la sua adozione presuppone la necessità e l’urgenza dell’intervento del Governo, ma questo non toglie che, una volta convertito in legge, resti “perfezionata” l’invasione della sfera di competenza regionale da parte della legge dello Stato. Su questo mi fermo però qui perché altrimenti il discorso ci porterebbe troppo lontano.
Ha parlato di illegittimità. Per quale passaggio del decreto?
I dubbi sono molti: la previsione di un “titolo concessorio unico” in luogo di due titoli distinti (permesso di ricerca e concessione di coltivazione); l’estromissione degli Enti locali dal procedimento amministrativo che porta al rilascio del “titolo concessorio unico”; il fatto che l’intesa della Regione sia considerata dal decreto – più di quanto non sia accaduto finora – come un atto interno al procedimento amministrativo. I dubbi che la previsione del titolo concessorio unico solleva riguardano il diritto di proprietà dei privati (art. 42 Cost.). La disciplina dei beni del sottosuolo si è sempre informata alla concezione fondiaria della proprietà. Già il codice civile del 1865 stabiliva che chi ha la proprietà del suolo ha pure quella dello spazio sovrastante e di tutto ciò che si trovi sopra e sotto la superficie. Secondo questa concezione, confermata dal codice civile del 1942 tuttora vigente, il sottosuolo appartiene al proprietario del fondo fino a quando il giacimento minerario non sia scoperto (e ne sia dichiarata la coltivabilità). Solo a partire da questo momento si ha l’acquisizione del giacimento al patrimonio indisponibile dello Stato. È a quel punto che lo Stato può dare il giacimento in concessione. In questa prospettiva, il permesso di ricerca si configura come un limite al godimento della proprietà, mentre la concessione è costitutiva di nuove capacità, poteri e diritti che altrimenti non si avrebbero. Vero è che la Costituzione, all’art. 42, ammette che la proprietà privata possa essere espropriata, ma solo per motivi di interesse generale e salvo indennizzo. Nel caso del rilascio del titolo unico, mancherebbe la dimostrazione dell’utilità generale, non essendo ancora stato scoperto il giacimento. Per questo, nonostante si cerchi di mantenere distinta la fase della ricerca da quella dell’estrazione, la previsione di un titolo unico, che entrambi i “momenti” riunisce, getta un’ombra sulla legittimità di una scelta siffatta. Tra l’altro, il titolo unico dovrà contenere sin dalla fase della ricerca persino il vincolo preordinato all’esproprio. Una follia se dovessimo prendere sul serio quanto scritto sul decreto. Resta infine un dubbio anche di compatibilità del decreto con il diritto dell’Unione europea, non solo in relazione alle norme sulla concorrenza, ma anche in relazione al fatto che la normativa dell’Unione mantiene distinte le due fasi. Un secondo problema riguarda la partecipazione degli Enti locali al procedimento. La legge n. 239 del 2004 aveva riconosciuto loro questo diritto. Successivamente la legge n. 99 del 2009 ha limitato la partecipazione degli Enti locali al procedimento finalizzato al rilascio dell’autorizzazione al pozzo esplorativo, alla costruzione degli impianti e delle infrastrutture connesse alle attività di perforazione. Ora il decreto sblocca Italia non fa più menzione degli Enti locali. Colgo l’occasione per ricordare che dinanzi al TAR Lazio pende un ricorso avverso un permesso di ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi, che verrà discusso il 27 novembre prossimo. Con il ricorso si chiede al TAR -seppure in via subordinata- di sollevare la questione di legittimità costituzionale della legge n. 99 del 2009, per violazione del principio di leale collaborazione. Un ultimo dubbio di legittimità concerne, infine, il rilascio dell’intesa da parte della Regione e, cioè, il fatto che il decreto del Governo sembrerebbe richiedere che l’intesa venga rilasciata in conferenza di servizi. Per la verità questa possibilità è già contemplata da tempo, ma nella prassi le singole Regioni hanno sempre rilasciato o negato l’intesa con un atto ad hoc, comunicato al Ministero dello Sviluppo Economico. Il decreto-legge, invece, parla di “apposita” conferenza di servizi (oltre tutto, in altra sua parte detta una nuova disciplina dell’efficacia degli atti di assenso che devono trovare espressione in seno alla conferenza). Questa previsione forse è dettata da esigenze di celerità, atteso che il procedimento deve concludersi entro 180 giorni (suppongo a partire dall’istanza presentata dalla società petrolifera). Ma se così fosse, la disposizione sarebbe certamente illegittima, in quanto tende a considerare la partecipazione della Regione al procedimento alla stregua di qualsiasi amministrazione pubblica, chiamata a rilasciare un semplice nulla osta o una mera autorizzazione. L’intesa della Regione si configura, invece, come atto “politico”, non come atto amministrativo, in quanto si giustifica quale compensazione alla perdita di competenza della Regione dovuta all’attrazione in capo allo Stato della stessa per esigenze di carattere unitario. Basta leggere quello che ha stabilito al riguardo la Corte costituzionale con le sentenze n. 482 del 1991 e n. 283 del 2005: la Regione ha diritto di partecipare alle decisioni assunte in sede statale con l’intesa e, in caso di mancato accordo con lo Stato, potrebbe portare all’attenzione della stessa Corte il problema, provocando un conflitto di attribuzione. Ma questo presuppone che l’atto della Regione conservi intatta la sua autonomia: se, invece, la Regione si esprimerà in conferenza, l’atto sarà imputato alla conferenza e non alla Regione.
In che modo lo “Sblocca Italia” incide sulle trivellazioni in mare?
Il decreto sembra dare il via libera alle attività petrolifere nelle acque del Golfo di Napoli, del Golfo di Salerno e delle Isole Egadi, attraverso una previsione che, solo apparentemente, pare dettata da ragioni di tutela ambientale. Questa conclusione la si trae dal fatto che la procedura disciplinata all’art. 38, comma 9, si applica “ai titoli minerari (dunque già rilasciati) e (anche) ai procedimenti di conferimento”, ricadenti nelle aree di cui all’articolo 4, comma 1, della legge n. 9 del 1991, che sono, appunto, relative, oltre al Golfo di Venezia, al Golfo di Napoli, al Golfo di Salerno e alle Isole Egadi. C’è poi il comma 10 dell’art. 38. Esso è relativo alle risorse nazionali di idrocarburi in mare “localizzate in ambiti posti in prossimità delle aree di altri Paesi rivieraschi oggetto di ricerca e coltivazione di idrocarburi” (cosa si intenda, però, con “prossimità” non è affatto chiaro). Con questa previsione si finisce per derogare al divieto di esercizio di nuove attività in mare, che ricadano entro le 12 miglia marine dalla costa. Individuate tali risorse, il Ministero dello Sviluppo Economico può, infatti, autorizzare per massimo cinque anni (prorogabili per altri cinque) progetti “sperimentali” di coltivazione di giacimenti di idrocarburi.
Per quanto concerne la valutazione di impatto ambientale (VIA), il decreto cambia qualcosa?
Il decreto prevede che la VIA sulle attività di perforazione e di realizzazione degli impianti dovrà concludersi entro sessanta giorni dalla presentazione delle domande e che ciò troverà applicazione anche ai procedimenti in corso se le compagnie petrolifere lo richiederanno entro novanta giorni dall’entrata in vigore dello “Sblocca Italia”. Occorrerà però attendere che sia varato il nuovo “disciplinare tipo” del Ministero dello Sviluppo Economico per capire in che modo saranno conferiti i nuovi titoli e in che modo si eserciteranno concretamente le attività relative.