Patrimonio culturale e paesaggio: programma minimo per il dopo elezioni

Immagine tratta da: http://www.blogtaormina.it

di Maria Pia Guermandi.

In quest’ultima fase della pessima campagna elettorale, la galassia dei partiti e partitini governativi sembra voler risollevare il proprio appeal elettorale su alcune parole d’ordine; all’insegna dell’ “abbassiamo i toni“, lo storytelling diffuso a reti unificate, rimanda ossessivamente all’ambito lessicale della rassicurazione, alle politiche dei piccoli passi, a cambiamenti da ottenere gradualmente, senza scossoni, nell’intento di costruire un’immagine di forza tranquilla e responsabile, unico argine agli opposti estremismi e unico interlocutore credibile per i partners europei.

Nella realtà, le così dette riforme prodotte dal governo a traino Pd in questi 5 anni hanno invece avuto impatto dirompente, animate come erano, dall’intento di squassare dalle fondamenta alcuni elementi portanti del welfare state così come conquistato attraverso le lotte del decennio riformista: dal lavoro alla scuola alla sanità, per non parlare dell’attacco alla stessa Carta costituzionale.

La discontinuità, o meglio la vera e propria rottura, non solo istituzional-amministrativa, ma ideologica che ci auguriamo come esito del voto di domenica, non può che partire, quindi, dallo smantellamento di alcuni “pilastri” dell’ultima legislatura, nel tentativo di ricucire – aggiornandolo e migliorandolo – quel sistema che ha saputo assicurare, per un paio di generazioni, emancipazione e protezione sociali come mai prima nella storia del paese.

Fra i pilastri da ricostruire vi è senz’altro il sistema della tutela del patrimonio culturale e del paesaggio, sistema investito in questi ultimi anni dalle così dette riforme Franceschini. Si è trattato in realtà di un gruppo di provvedimenti disorganici fra di loro e istituzionalmente al limite della correttezza, dal carattere contemporaneamente devastante, da un lato, e arcaico dall’altro, in quanto ispirato ad una visione passatista e conservatrice del patrimonio.

Devastanti, tali provvedimenti, perché hanno smontato fino a ridurlo, per certi versi, al limite del collasso, un sistema che, per quanto imperfetto e meritevole di aggiornamento, continuava a svolgere alcune funzioni, pur fra carenze e limiti sempre più evidenti.

Le così dette riforme Franceschini, invece di procedere ad un aggiornamento, anche radicale, ma ragionato e soprattutto monitorato negli effetti, hanno invece provocato fratture incongrue ad ogni livello: funzionale, geografico, amministrativo (scissione tutela/valorizzazione, ripartizioni estemporanee di risorse, estrapolazione di luoghi e monumenti dal contesto territoriale) per di più senza sostituirvi una struttura coerente ed operando con modalità amministrativamente e organizzativamente del tutto improvvisate e disorganiche, tanto è vero che ad oggi, a distanza di circa 3 anni dall’avvio di questa operazione, la situazione all’interno dei vari istituti – sia soprintendenze che musei – è ancora di caos organizzativo, dal punto di vista della ripartizione del personale, delle competenze, delle risorse quali ipoteche, archivi, laboratori.

Concentrando risorse e visibilità politica e mediatica su pochi, pochissimi monumenti la visione delle riforme franceschiniane ci ha riportato un secolo indietro, al tempo in cui il patrimonio culturale era costituito dalle sole opere d’arte di eccellenza, una collana di highlights, di capolavori, gli unici degni di attenzioni in quanto redditizi o supposti tali dal punto di vista dell’indotto turistico. E il “resto”, vale a dire il 95% del patrimonio diffuso sul territorio, è per conseguenza trattato alla stregua di una bad company da dismettere pezzo a pezzo, come sta puntualmente avvenendo tramite dismissioni striscianti e cessione di competenze e gestione patrimoniale alle Fondazioni, da Ravenna ad Aquileia alle residenze sabaude.

Si tratta di quella ritirata dello Stato, del pubblico in senso lato, dalle proprie prerogative che è fenomeno che interessa tutta la pubblica amministrazione, passaggio ineludibile di quello smantellamento delle conquiste sociali costitutive del welfare state, uno dei pochi lasciti progressisti di quest’Europa che arretra su tutti i fronti.
Per quanto riguarda il paesaggio, poi, quest’operazione di “abbandono del campo” da parte degli organismi di tutela, già in atto da almeno un decennio, è stato scientemente perseguito da quest’ultimo governo attraverso una serie molteplice di provvedimenti, dallo SbloccaItalia alla legge Madia, dalla semplificazione delle autorizzazioni paesaggistiche alla riforma della VIA. Gli organi di tutela sono stati marginalizzati, il loro potere decisionale circoscritto nei tempi e nelle modalità. Praticamente annullate le possibilità di un’opposizione nel merito ad esempio all’interno delle conferenze di servizio. Depotenziando le Soprintendenze attraverso le riforme, infine, si è sancita l’impossibilità – de facto – di un serio controllo del territorio da parte degli organismi di tutela.

Oltre a non avere alcun effetto – o addirittura effetti contrari – per quanto riguarda gli sbandierati obiettivi di semplificazione e risparmio delle risorse (spending review) le riforme hanno contribuito ad affossare ulteriormente un mercato del lavoro già da tempo investito da fenomeni di precarizzazione endemica. Dal momento che le funzioni in capo al ministero non sono diminuite, ma anzi si sono ampliate nel tempo, a fronte della volontà politica di non allargare le maglie degli organici, anzi di ridurle, è stato inevitabile ricorrere a forze esterne con veri e propri fenomeni di dumping sociale e la precarizzazione si è così istituzionalizzata.

Nessuna innovazione, infine, neanche per quanto riguarda la così detta valorizzazione, vero target delle politiche ministeriali, interpretata al ribasso come pura rendita turistica su cui lucrare col minimo degli investimenti.

Eppure le statistiche continuano a restituirci l’immagine di un paese che continua ad avere un evidente problema di democratizzazione nei confronti del proprio patrimonio se quasi 7 persone su 10 non entrano in un museo neanche una volta l’anno. E mentre nei paesi di più evoluta riflessione culturale, da oltre un decennio si ragiona di un uso del patrimonio che parta dai bisogni non più degli oggetti, ma dei soggetti, a partire dai cittadini – vecchi e nuovi – e che trasformi i nostri beni culturali in strumenti di primaria importanza di quelle politiche di inclusione su cui in Italia siamo poco più che all’anno zero, il Mibact di Franceschini si autocelebra attraverso la top ten dei numeri sui biglietti dei musei.

Come è già stato ribadito, da Tomaso Montanari in primis, il nostro patrimonio culturale deve tornare ad avere un ruolo fondamentale in quella costruzione del senso di cittadinanza oggi a rischio di frantumazione.

Il concetto di patrimonio culturale nacque nel Rinascimento, come strumento per l’emancipazione dell’uomo dal determinismo biologico, perché in grado di sviluppare il senso critico e la comprensione – e quindi accettazione – del diverso nel luogo e nello spazio.

A queste funzioni che ne hanno decretato il carattere di elemento sostanziale della modernità che stava nascendo e che conservano intatte la loro importanza nel mondo contemporaneo, deve essere riconsegnato e ciò si potrà fare solo a partire dallo smantellamento delle “riforme” Franceschini.

Primo passo da compiere verso una riforma radicale che si ponga l’obiettivo primario di inserire le politiche culturali – una volta elaborate, finalmente – come perno della programmazione economica, infrastrutturale, territoriale e ovviamente educativa, restituendogli quel ruolo da troppo obliterato di elemento vitale del progresso sociale.

Tratto da: http://www.eddyburg.it/2018/02/patrimonio-culturale-e-paesaggio.html