di Giacinto Giglio, Forum Salviamo il Paesaggio e Consigliere Nazionale di Italia Nostra.
Non basta che tre associazioni ambientaliste dettino un dodecagono sulla transizione energetica perché si concili lo sviluppo energetico con il paesaggio, bisogna valutare le ricadute nella pratica attuazione dei singoli impianti energetici, ma anche l’effetto cumulativo e sinergico che essi hanno sul paesaggio.
Con le pale eoliche e gli impianti fotovoltaici ecc. si vuole riqualificare il paesaggio italiano così vulnerabile: così si può solo trasformare irreversibilmente e danneggiarlo. Forse gli estensori del dodecagono dei paesaggi rinnovabili si riferiscono al recupero dei paesaggi compromessi o degradati come quelli della dimissione, delle aree di discarica, di cava ecc. che possono essere riqualificati anche con impianti energetici creando i cosiddetti “nuovi paesaggi”.
Il paesaggio, il patrimonio culturale e l’ambiente sono al centro dell’interesse pubblico e non la transizione ecologica, come ricordano queste tre associazioni ambientaliste doc, ma perché questo è tutelato dall’art. 9 della Costituzione. Inoltre, la Convenzione europea del paesaggio ha definito il “Paesaggio” designandolo come “una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”.
In Italia, più che in altre nazioni i paesaggi sono “paesaggi rurali storici” ossia trasformati nei secoli da attività agricole. Per questo, come ricorda la lettera d) dell’art. 135 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, nei Piani Paesistici Regionali si deve fare “particolare attenzione alla salvaguardia dei paesaggi rurali e dei siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO”.
Ed per questo che il Ministero dell’Agricoltura ha istituito l’O.N.P.R. (Osservatorio Nazionale del Paesaggio Rurale, pratiche e conoscenze tradizionali) che ha il compito di “censire i paesaggi, la conservazione e valorizzazione delle pratiche agricole e delle conoscenze tradizionali, intese come sistemi complessi basati su tecniche ingegnose e diversificate, sulle conoscenze locali espresse dalla civiltà rurale che hanno fornito un contributo importante alla costruzione ed approfondiscano i valori connessi con il paesaggio rurale, la sua salvaguardia, la sua gestione e la sua pianificazione, anche al fine di preservare la diversità bio-culturale.”
Nel Catalogo Nazionale dei paesaggi rurali storici sono già stati identificati 123 paesaggi distribuiti in tutte le regioni italiane e nel Registro Nazionale sono già inseriti 30 paesaggi d’Italia.
Come si possa “tutelare l’identità dei luoghi” installando le pale eoliche, gli impianti fotovoltaici, le centrali a biomasse resta un mistero. Per avere una percezione positiva delle comunità locali (consenso) su futuri “paesaggi rinnovabili” si concederanno: royalty, bonus energetici e persino l’azionariato diffuso in aziende energetiche. Ma gli “ambientalisti doc” non considerano il resto dei cittadini di una nazione e tra questi i turisti fruitori di quei paesaggi al pari dei residenti, che portano opportunità di sviluppo sostenibile al territorio. E’ bene promuovere la partecipazione delle comunità locali sulle trasformazioni del proprio paesaggio identitario con i Dibattiti Pubblici delle procedure di VIA, ma prima bisogna approvare i Piani Paesistici Regionali co-pianificati con il Ministero della cultura ai sensi del Codice del paesaggio (Dgls 42/2004).
Si ribadisce la centralità delle norme dei Piani Paesaggistici regionali per la Transizione Ecologica ma poi, preso atto che dalla Legge Galasso al Codice dei Beni culturali e del paesaggio sono stati approvati solo 3 Piani Paesistici regionali (Sardegna, Puglia e Toscana) e la proposta conseguente doveva essere che le Regioni che non hanno i P.P.R. co-pianificato con il Ministero della Cultura non possono attuare i cosiddetti “paesaggi rinnovabili” se si vuole veramente la tutela del paesaggio.
La CE ci dice di incentivare la percentuale di fonti energetiche rinnovabili, ma senza Piani Energetici Regionali sottoposti a VAS non si possono inseguire le proposte private di nuovi impianti energetici per 60 GW 2030 inseguendo i consumi energetici e non prevedendo l’efficienza e il risparmio energetico. Da questo si deduce che con la crisi climatica e l’emergenza energetica ci sarà una crescente ricerca di aree idonee in cui collocare nuovi impianti, ma invece le regioni dovrebbero redigere “elenco di aree e siti non idonei all’insediamento di specifiche tipologie di impianti da fonti rinnovabili” come ha fatto la Regione Puglia dal 2010.
Il centralizzare in una Cabina di regia nazionale interministeriale, con la presenza di enti di ricerca, non favorisce una visione “olistica” dei “paesaggi rinnovabili”, ma in realtà serve solo a eliminare gli intoppi burocratici dei “settorialismi autoreferenziali”, ossia i pareri delle Soprintendenze e degli Enti Locali.
E’ ovvio che le regioni che si sono dotate di Piani Paesaggistici regionali adeguati al Codice hanno definito anche le “Linee guida sulla progettazione e localizzazione degli impianti energetici da fonti rinnovabili” e hanno fatto corsi di formazione ai tecnici delle PA e ai liberi professionisti sul “progetto di paesaggio”.
I cambiamenti climatici ci portano ad una de-carbonizzazione ed è per questo che le fonti energetiche rinnovabili si possono installare sugli edifici pubblici, nelle zone industriali, nelle zone commerciali, sui tetti, nelle zone degradate ecc.
Ben vengano le “comunità energetiche” che puntino al risparmio energetico e alla auto-produzione su piccola scala, eliminando l’impatto paesaggistico dei grossi impianti energetici. Ora gli “ambientalisti doc”, dopo aver riempito l’Italia di fotovoltaico “a terra”, ci propongono l’escamotage “dell’agrovoltaico” sospeso sui campi per non occupare suolo e la cui produzione necessita al comparto industriale e non alle aziende agricole.
Come si possono ammettere i pannelli solari (fotovoltaici e termici) nei centri storici, magari sui tetti spioventi o sui terrazzi? Ed ancor più singolare che pur ammettendo l’impatto paesaggistico della “selva” di pale eoliche in alcune regioni (Puglia e Basilicata) e poi invece della “de Commission” dei vecchi impianti si proponga il “repowering”, ossia di sostituirli con impianti con maggiore efficienza energetica con la “possibilità” di ridurre il numero di pale.
Si afferma che l’impatto paesaggistico di taluni impianti eolici è dovuto non alle caratteristiche intrinseche delle pale, ma ad errori progettuali, ossia al mancato inserimento nel contesto. Ma non può un impianto eolico alto da 60 a 100 metri e con le pale lunghe da 20 a 60 m. inserirsi nel paesaggio di crinale variando la proporzione tra altezza e distanza degli aerogeneratori.
Ma forse non sono i progetti che non si adattano al contesto paesaggistico e naturale, ma è il paesaggio che non ha “la capacità di assorbimento visuale” e comunque una pala eolica crea “un’intrusione visiva”.
L’ultima chicca del dodecagono dei “paesaggi rinnovabili” è quella di aggiungere anche l’impatto di grossi impianti di biogas da fonte agricola e zootecnica e magari con il taglio selvaggio dei boschi. Questa scelta energetica si giustifica con la carenza di riserve di gas fossile in Italia, ma mi chiedo perché questi signori non hanno pensato, nel quadro di un’economia circolare, anche al recupero del metano prodotto dalle mucche ed altri ruminanti che contribuiscono anch’essi all’effetto serra.