Piano delle Attività Estrattive Piemonte: strumento tecnico per il territorio o imposizione ideologica?

Associazioni e Movimenti chiedono rettifica alla Regione Piemonte per evitare sia impedito il diritto d’espressione.

Un folto novero di Organizzazioni civiche piemontesi ha inviato oggi un messaggio congiunto alla Regione per richiedere un urgente intervento correttivo al documento che lo stesso Ente ha sottoposto all’attenzione di tutta la cittadinanza all’interno del processo partecipativo che intende disciplinare le attività estrattive in materia di cave.

Trattandosi di un intervento tecnico, le Organizzazioni ritengono che alcune preliminari affermazioni contenute nel documento rischino di invalidare qualunque analisi e proposta alternativa da parte dei soggetti per altro invitati a suggerire modifiche e miglioramenti alla bozza di Piano presentata, suonando come una sorta di delegittimazione e pregiudizio nei confronti di chi dovesse esprimere visioni differenti, che per le tematiche cui si riferisce e il contesto ambientale dei nostri giorni appare di particolare delicatezza e dovrebbe invece indurre a un sereno percorso di partecipazione civica, il più esteso possibile.

Qui sotto il testo integrale della richiesta trasmessa, ora in attesa di opportuna azione e risposta da parte dell’Ente regionale.


Oggetto: Proposte tecniche al Piano Regionale delle Attività Estrattive (PRAE). Richiesta di rettifica chiara e immediata.

Le Associazioni/Movimenti/Comitati che sottoscrivono questo documento intendono rivolgere un urgente invito alle Autorità competenti in indirizzo allo scopo di risolvere un equivoco di grave portata connesso al percorso avviato per il nuovo Piano Regionale delle Attività Estrattive (PRAE).

Nell’esaminare le proposte tecniche contenute nel Piano stesso – adottato dalla Giunta regionale con D.G.R. n. 81-6285 del 16/12/2022 – al fine di sottoporre all’Ente puntuali documenti di “osservazioni”, ci siamo infatti imbattuti in un passaggio inaccettabile e inutilmente provocatorio particolarmente irrituale per un progetto pianificatorio che tutto dovrebbe contenere tranne che gratuiti giudizi politici che, al contrario, dovrebbero essere totalmente estranei a documenti di carattere, appunto, tecnico.

Vi segnaliamo, ad esempio, questa frase riportata alla pagina 25 della Relazione Generale di Piano, Cap. 4:

Talvolta l’iniziativa estrattiva non viene compresa nel suo effettivo significato di contributo allo sviluppo dell’economia nazionale, così come spesso non viene compresa l’utilità economica diretta per il territorio e la collettività che ne percepisce esclusivamente gli effetti negativi. Ad esempio, andrebbero maggiormente considerati i benefici derivanti al territorio dalla presenza in loco di materie prime funzionali allo sviluppo edilizio, infrastrutturale ed industriale dell’area, oltre all’occupazione diretta ed indotta dalle attività pianificate, rapportando i benefici indotti con le ricadute ambientali attese, eventualmente mitigate e compensate. Le motivazioni addotte a livello locale per ostacolare o bloccare le attività minerarie riguardano principalmente i rischi percepiti dal punto di vista ambientale o per la salute: i timori della popolazione spesso non riescono ad essere fugati da relazioni tecniche, misurazioni, progetti, accordi di programma, convenzioni, etc., in quanto persiste una naturale sfiducia, anche alimentata da gruppi di pressione e di opinione pregiudizialmente interessati a bloccare per motivi ideologici opere e attività rilevanti per l’economia nazionale.

Le considerazioni evidenziate ci paiono gravi e totalmente fuori luogo (esercitare il proprio diritto alla protezione del territorio rappresenta un motivo ideologico?), forse comprensibili all’interno di un comunicato stampa “di parte” ma non certamente tollerabili in un documento che dovrebbe esprimersi tecnicamente per consentire e favorire altrettanto tecniche risposte.
Quanto evidenziato rischia, inoltre, di invalidare qualunque analisi e proposta alternativa da parte dei soggetti per altro invitati a suggerire modifiche e miglioramenti alla bozza di Piano presentata. Le parole utilizzate in questo passaggio, lo ribadiamo, suonano come una sorta di delegittimazione e pregiudizio nei confronti di chi dovesse esprimere visioni differenti in questo procedimento, che per le tematiche cui si riferisce e il contesto ambientale dei nostri giorni appare di particolare delicatezza e dovrebbe indurre ad un sereno percorso di partecipazione civica il più esteso possibile. A meno che, come pare trasparire, l’estensore delle proposte tecniche non eserciti alcun reale interesse a promuovere la partecipazione tecnica di associazioni, comitati e movimenti ritenuti privi di grande utilità sociale, se non quella di rallentare opere “di assoluto interesse per i cittadini e indispensabili per il loro benessere”…

Per tali motivi, prima che gli scriventi procedano nell’analisi del proposto Piano Regionale delle Attività Estrattive, riteniamo che la Regione Piemonte debba sopprimere il passo citato e rendere pubblica una nota di rettifica che confermi la piena libertà di espressione di quanti vorranno collaborare nel proporre modifiche.

Restiamo in attesa di Vostre urgenti e cortese indicazioni in merito, porgendo distinti saluti.

FIRMATARI:

Coordinamento dei Comitati piemontesi del Forum “Salviamo il Paesaggio – Difendiamo i Territori”

Italia Nostra Piemonte

Movimento Stop al Consumo di Territorio

Pro Natura Piemonte

(Immagine tratta dal Rapporto cave di Legambiente).

Un commento

  1. “C’è chi in Montagna ci va per noia, chi se lo sceglie per professione…
    Per tanti diseredati né l’uno né l’altro, loro lo fanno per disperazione…”

    PER QUALCUNO UN “ALTRO ALPINISMO” (DI LACRIME E SANGUE) E’ DRAMMATICAMENTE NECESSARIO, SENZA ALTERNATIVE….
    Gianni SartoriAnche recentemente percorrendo qualche “stroso” berico- euganeo o prealpino mi è capitato di incrociare persone che hanno partecipato in varia forma a progetti tra le montagne pakistane. Con lo scopo ufficialmente dichiarato di “aiutarli a casa loro”.
    Sorvolo sul fatto che tra i miei pur numerosi allievi di origine pakistana (corsi di alfabetizzazione per adulti di qualche anno fa) non ho mai incontrato montanari hunza o balti. Provenivano invece da aree metropolitane veramente degradate, oppure da campagne devastate periodicamente da siccità e alluvioni, (stando ai loro racconti). Altre fonti mi riferivano di conflitti e persecuzioni ai danni di minoranze oppresse (beluci, azara, cristiani..) e non mancava nemmeno qualcuno che aveva fatto in tempo a farsi le ossa in Afghanistan, a fianco delle guerriglia anti-russa.
    Non discuto la buona fede, le buone intenzioni. D’altra parte si può essere, magari involontariamente, anche “portatori sani” di consumismo, capitalismo, mercificazione etc (ossia di una forma subdola di colonialismo).
    Pensiamo ai frichettoni degli anni settanta (quelli che almeno viaggiavano con l’autostop, non certo con l’aereo) che pur contribuirono, per quanto si sentissero alternativi al sistema, a degradare, contaminare, impestare di consumismo il Nepal.
    Ma vorrei ricordare a questi turisti d’alta quota (tali sono comunque la si giri), per esempio, quanto denunciava in anni non sospetti il movimento “Society for the Protection of the Rights of the Child”, ossia che “in Pakistan è prassi comune utilizzare il lavoro minorile in diversi settori, dall’impiego leggero alle mansioni più pesanti e pericolose”. Dai tappeti – servono manine piccole per i nodi – ai mattoni (ricorderete Iqbal Masih). Stando ai dati forniti da Sparc “fra gli 11 e i 12 milioni di bambini, la metà dei quali al di sotto dei 10 anni, sono sfruttati per lavoro” su tutto il territorio pakistano.
    Inoltre sarebbero circa otto milioni i minori che non frequentano la scuola, in gran parte “bambini di strada” esposti a ogni genere di violenza e sfruttamento.
    Oppure pensiamo alla difficile situazione delle minoranze religiose non musulmane.
    Fermo restando che non se la passano troppo bene neanche una parte dei musulmani, perlomeno quelli di fede sciita. Anche loro, come i cristiani, sono esposti a discriminazioni, attacchi e attentati.
    Se poi appartieni oltre che a una minoranza religiosa (per es. sciita) anche a un gruppo etnico discriminato (per es. Azara) allora le cose si complicano ulteriormente. Se poi magari sei anche donna…
    Resto insomma del parere che costruire strade, ponti in ferro (magari dove c’era già in stile tradizionale, in legno) o rifugi in quello che talvolta viene definito il Terzo Polo (per la ricchezza di ghiacciai e nevai) sia – più che carità cristiana – un modo come un altro per farsi qualche vacanza esotica. Tutti più o meno, se non qualche prima ascensione su vette rimaste fortunosamente illibate (loro dicono “inviolate”, un lapsus?), si son fatti per lo meno dei trekking (a scopo umanitario?).
    Il discorso sarebbe lungo, ma comunque mi chiedo come mai non abbiano pensato di “aiutare a casa loro” operando in qualche periferia urbana degradata invece che in località amene, salubri, paesaggisticamente e naturalisticamente ancora integre.
    Addestrare future guide per incentivare il turismo, sempre a mio parere, in futuro alimenterà solo il degrado ambientale e comunque fornirà infrastrutture di intrattenimento consumista per le borghesie locali. Oltre che per gli esponenti delle forze armate, quelle che forniscono gli elicotteri agli avventurosi alpinisti spesso bisognosi di soccorso in quota.
    O comunque vie di comunicazione e rifugi (strutture alberghiere ?) a uso e consumo dei benestanti di varia provenienza. Sia Occidentali che dagli Emirati.

    Qualche perplessità anche in merito pozzi scavati “per fornire ai villaggi l’acqua potabile” (non siamo in Africa e finora si arrangiavano benissimo). Come è noto in altre regioni (vedi in Nepal, ma non solo) frequentate ormai da decenni dalle spedizioni alpinistiche commerciali (quasi tutte ormai) il problema dell’acqua contaminata, inquinata si è posto solo negli ultimi anni. A causa delle deiezioni (feci) lasciate in quota da migliaia e migliaia di alpinisti. Qui si conservano “al fresco”, ma poi lentamente scendono a valle e con le temperature più alte contaminano appunto l’acqua che fuoriesce da nevai e ghiacciai. Sarebbe il caso di verificare.

    Per cui insisto. Per quanto riguarda la cosiddetta “valorizzazione” dal punto di vista alpinistico (e sciistico, turistico in generale) delle Terre Alte pachistane, la considero una forma di neocolonialismo (soprattutto culturale, ma non solo). Nonostante qualche scatola di medicinali data in beneficenza.
    Per antitesi, ricordo che un mio cugino medico, volontario conMedici per l’Africa (di Padova) in oltre tre anni continuati di permanenza in un ospedale tra le savane del Kenya, si concesse soltanto due ascensioni, frettolose e autogestite, sui Monti Kenya e Kilimangiaro. Due in tutto. A cui in anni successivi ne aggiunse una terza durante un altro periodo di volontariato.
    Questo si chiama “aiutare a casa loro”, non certo qualche piccolo rattoppo umanitario tra un’escursione e una scalata.
    Ripensandoci, mi son ricordato anche di due miei interventi, uno recente, l’altro di un anno fa.
    Dove l’andar per monti si rivestiva di ben altre atmosfere e suggestioni rispetto a quelle dei conquistatori di vette esotiche.
    Nel gennaio del 2022 avevo approfondito la tragica vicenda di una madre in fuga dall’Afghanistan morta congelata sulla frontiera turco-iraniana. Come altri avevano riportato la donnaaveva dato i suoi calzini ai figli affinché li usassero come guanti per proteggere le mani dal gelo.
    In realtà, scopri in seguito, la donna si era tolta, dandole ai bambini, anche le scarpe e procedeva nella neve con i piedi nudi avvolti in sacchetti di plastica.
    Se l’unanime commozione suscitata dal tragico evento era stata di breve durata, non sembrava invece rallentare il flusso dei rifugiati (in gran parte afgani) che su quella stessa frontiera rischiano quotidianamente la vita.Ma, come viene denunciato sia da qualche Ong che da avvocati di Van, ai rischi connessi con i rigori invernali bisogna aggiungere quello di venir intercettati dai soldati turchi e di subire maltrattamenti e torture.
    E’ cosa nota che i rifugiati vengono utilizzati come “moneta di scambio” dal regime di Erdogan per condizionare la politica dell’Unione europea. Soprattutto per ottenere finanziamenti in cambio del controllo esercitato da Ankara sui flussi migratori.
    Solo in quelle prime settimane del 2022 almeno altre tre persone erano morte per il freddo, tra la neve e le rocce. Dopo essere state fermate (catturate) e rispedite brutalmente oltre frontiera dai militari turchi.
    Altre invece venivano ormai date per disperse e “forse solo in primavera – scrivevo – con il disgelo, i loro corpi potranno essere rinvenuti”.
    Anche la donna, all’epoca ancora non identificata, morta dopo aver dato ai suoi bambini le calze e le scarpe, sarebbe stata prima fermata dai soldati turchi. Abbandonata poi sulla frontiera dove i militari iraniani si eranoa loro volta rifiutati di soccorrerla con le tragiche conseguenze. Solo i bambini, con le estremità ormai congelate, venivano infine soccorsi dagli abitanti di un villaggio.
    Un avvocato di Van, Mahmut Kaçan, ha raccolto le testimonianze di numerosi rifugiati. Stando alle loro dichiarazioni “la maggior parte dei migranti catturati vengono riportati, senza procedure legali, sulla frontiera iraniana e qui semplicemente abbandonati”. Una persona in particolare ha raccontato di essere riuscita ad “attraversare più volte la frontiera, venendo ogni volta respinta e maltrattata”. E mostrava le dita, sia delle mani che dei piedi, completamente ricoperte di ferite.
    Quasi tutti i rifugiati raccontavano non solo di aver subito maltrattamenti e talvolta torture, ma di essere stati regolarmente derubati. Sia del denaro che degli oggetti (vedi i telefoni) in loro possesso.
    A un anno di distanza (gennaio 2023) verificavo che la situazione sembra rimasta tale e quale, se non addirittura peggiorata.
    Molti rifugiati – oltre ad aver subito maltrattamenti e anche torture – denunciano di essere stati regolarmente derubati. Sia del denaro che degli oggetti (vedi i telefoni) in loro possesso.
    Non conoscendo quei territori montuosi, impervi “finiscono per smarrirsi in piccoli villaggi dove, già stanchi e affamati per il lungo peregrinare, diventano facile preda di qualche banda armata”.
    Criminali che in genere sequestrano qualche membro della famiglia per poi estorcere un riscatto.
    In un video diffuso recentemente si vedono alcuni profughi afghani con le mani legate dietro la schiena (alcuni anche imbavagliati), in ginocchio e col viso appoggiato a una parete. In un altro video a un profugo viene troncato di netto un orecchio (a scopo intimidatorio, forse per prevenire tentativi di ribellione) mentre altri, incatenati, vengono frustati.
    Del resto la frontiera turco-iraniana è da tempo un luogo di repressione e sofferenza. Non solo per i migranti, ma anche – da anni e anni – per i kolbar (gli “spalloni” curdi ) che cercano di guadagnarsi da vivere contrabbandando merci da un parte all’altra della frontiera. Quella che divide del tutto artificialmente il Bakur dal Rojhilat (rispettivamente, il Kurdistan sotto occupazione turca e quello sotto occupazione iraniana). I kolbar feriti o uccisi dalle guardie di frontiera ormai si contano a decine.
    E per tornare ai nostrani “samaritani” delle Vette: mai pensato di andar a dare il cambio – almeno per un breve tratto – a qualche kolbar curdo? O di portarsi in spalla qualche piccolo profugo, regalando magari anche scarpe adeguate? Come allenamento sarebbe ottimo. Attenti alle guardie di frontiera turche però.
    Gianni Sartori

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