Una lettera degli architetti sul DDL Lupi

Egregio signor Ministro,

accogliamo volentieri il suo invito ad esprimerci sul testo del disegno di legge dal titolo:
principi in materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana.

Siamo dei tecnici e sappiamo che il settore delle costruzioni non si rilancia seguendo le devastanti, arretrate, pratiche tradizionali, foriere di sprechi, tangenti, distruzione del territorio e delle città, ma solo, approfittando di questa crisi generata da speculazioni edilizie e finanziarie, capovolgendo l’approccio al settore delle costruzioni, attraverso la realizzazione di opere utili al risanamento del territorio e alla riconversione del patrimonio edilizio, comprimendo il consumo di suolo.

Alcuni assunti fondamentali (beni comuni, tutela e valorizzazione dell’ambiente e del paesaggio, unitarietà, sviluppo sostenibile, coesione sociale, collaborazione, sussidiarietà, partecipazione, trasparenza della azione amministrativa, ecc.) vengono nel ddl distorti per decretare la fine della pianificazione e della possibilità di controllo delle scelte di trasformazione del territorio da parte delle comunità che lo abitano.

Il disegno di legge estende al territorio nazionale il rito urbanistico ambrosiano, che a partire dalle esperienze milanesi, hanno riconosciuto nel privato e nei suoi interessi i princìpi di ogni regola.

Ci si chiede se in un periodo di riforme, si possa ritenere che la realtà economica, sociale, politica di oggi sia quella di oltre cento anni fa o, piuttosto, ci si debba interrogare del come le attuali realtà territoriali possano essere soddisfatte con strumenti e interventi che tengano conto dei bisogni reali, in coerenza con le direttive europee in materia di tutela ambientale e sociale.

Occorre quindi ricordare innanzitutto le difficoltà che sono unanimemente riconosciute come i maggiori ostacoli per assicurare a città e territori principi e capacità di ordine, o, almeno, condizioni di convivenza civile quali:

  • il peggioramento progressivo del soddisfacimento della domanda di mobilità: all’aumento della domanda si è registrata una contrazione dell’intervento, in primo luogo per la gestione del trasporto locale,
  • l’inadeguatezza della offerta di residenza per le categorie più sfavorite, oggi affrontata in maniera episodica e dispersiva,
  • la riduzione fino all’annullamento della capacità operativa delle amministrazioni locali,
  • la progressiva riduzione della capacità di mantenimento del patrimonio pubblico cittadino (verde, sedi per le attività culturali, sportive ecc,), malgrado la caccia a finanziatori privati, sensibili ad operazioni di forte richiamo ma non attratti dalla minuta, capillare manutenzione che garantisce la sopravvivenza del bene;

E’ immediato verificare che condizione per interventi rivolti ad affrontare con razionalità i problemi veri della città è quella di disporre di uno strumento che garantisca unitarietà, coordinamento, priorità, attuazione, compiti propri della pianificazione e della programmazione, intese come attività di espressione sovrana della volontà collettiva, che questo disegno di legge si appresta a sopprimere, dal momento che nell’urgenza della prassi amministrativa, troppo allettante appare un intervento purchessia del privato, interessato esclusivamente a dare un destino ai propri beni.

La prima considerazione, propedeutica ad ogni altra, riguarda la mancata corrispondenza del ddl in esame, alla riforma al titolo V già approvata al Senato. Essendo presumibile che le competenze attribuite a Stato e Regioni non si discosteranno molto da quelle contenute nel testo costituzionale in itinere e tenuto conto che vi è un nuovo assetto nella struttura istituzionale riguardante sopratutto le Province, è lungimirante la costruzione di un testo che ne tenga conto, considerato che il “Governo del Territorio”, di cui tratta la proposta di ddl non è, o meglio non sarà, più materia concorrente, ma materia esclusiva dello Stato. Così pure appare incongruo mantenere dei riferimenti e dei compiti (articoli 5 e 8) alla Conferenza Stato Regioni del tutto inutile dopo l’istituzione del nuovo Senato delle Autonomie

La seconda considerazione di carattere generale riguarda la “filosofia” che attraversa tutto l’articolato, molto sbilanciata verso la promozione e la difesa delle prerogative dei soggetti privati, intesi non tanto come cittadini detentori di interessi diffusi, quanto soggetti miranti ad ottenere dall’uso del territorio, Bene Comune, un proprio personale vantaggio economico.

L’aspetto non condivisibile riguarda l’equidistanza, se non addirittura la subalternità dell’Ente pubblico, cui spetta per Legge il governo del territorio, agli interessi privati, che si evidenzia in particolare in due clamorosi “riconoscimenti”.

Il primo risiede agli art.1 e 7 che sanciscono il diritto del privato a partecipare alla elaborazione degli strumenti di pianificazione urbanistica sia generali che operativi.

Il secondo sta scritto all’articolo 8 relativo all’obbligatoria compensazione di limiti posti alla proprietà privata, ma sopratutto all’articolo 12 che impone il risarcimento al privato, in caso di variante al Piano, dei mancati guadagni dei cosiddetti “diritti edificatori” che il Comune stesso ha gratuitamente elargito attraverso una destinazione urbanistica (con premialità, compensazioni, perequazioni) e che deve pagare risarcendo un presunto mancato guadagno. Una qualche responsabilità spetta anche a chi ha inventato questo lessico deviato del diritto edificatorio, inesistente, in quanto diritto non è, ma solo previsione di un assetto urbanistico che offre delle possibilità a costruire. Diventerebbero diritti, comunque subordinati al pubblico interesse, qualora fosse raggiunta attraverso le procedure di rito e gli eventuali nulla osta, tale facoltà sancita dal rilascio di un permesso a costruire dato dall’organo competente e/o attraverso un atto convenzionale.

Il terzo rilievo riguarda l’assenza di qualsiasi preoccupazione di carattere ambientale che, non solo scienziati, esperti, ambientalisti rilevano, ma i cittadini comuni, portatori di esigenze collettive dotati ormai di sensibilità verso i problemi che investono il territorio naturale e antropizzato che provocano gravi danni a persone e a cose, nonché alla profonda evoluzione della partecipazione in forme che raggiungono livelli qualitativi idonei al loro formale riconoscimento di attori a pieno titolo. Una Legge moderna sul governo del territorio, non può prescindere dagli aspetti di tutela del territorio, di difesa delle sue fragilità dovute allo squilibrato consumo di suolo e uso improprio delle risorse non riproducibili, nonché alla profonda evoluzione della partecipazione. Questa è la principale ragione per cui è necessario por mano alla revisione della Legge Urbanistica del 1942, quando questi aspetti non si presentavano nella forma devastante in cui si pongono oggi.

Persino l’attuale cancelliera Angela Merkel quando era Ministro dell’Ambiente, ravvisò nel consumo di suolo il più pericoloso attacco al sistema ambientale, causa non secondaria di allagamenti e mutamenti climatici, a cui pose parziale rimedio con una Legge che disponeva limiti inderogabili.

L’esasperata privatizzazione della città, che il proposto ddl favorisce, si evince anche dal ruolo affidato agli standard urbanistici chiamati anche dotazioni territoriali. Questi non sono più espressi in termini di superfici o volumi, anche attraverso un aggiornamento delle funzioni che sono destinati a svolgere, bensì vengono considerati dotazioni da garantire, non attraverso lo strumento della pianificazione urbanistica che individua le aree da destinare a pubblici servizi, bensì invece attraverso forme proprie dei servizi sociali e delle strutture sanitarie a cui spettano specifici compiti di programmazione e gestione, ma che non possono assolutamente sostituirsi nella definizione, localizzazione, dimensionamento di spazi destinati ai servizi pubblici di quartiere, urbani, territoriali, compito che spetta unicamente allo strumento della pianificazione urbanistica. E a questo riguardo lascia assai perplessi che i minimi standard vengano azzerati con la soppressione del decreto ministeriale che li ha originariamente istituiti. Segno questo di una controriforma della pianificazione e del governo del territorio, di un’arretratezza politico-sociale rispetto alle conquiste civili raggiunte nel passato. Lasciare alle Regioni la possibilità di incrementare la dotazione di servizi, come oggi avviene, è un giusto tributo al federalismo, ma garantire ad ogni cittadino della penisola una dotazione minima di spazi destinati alla cura, al gioco, al verde, all’istruzione, al culto, ai parcheggi… è un atto dovuto dal governo centrale, una sua imprescindibile responsabilità nei confronti dei diritti individuali e collettivi, di socialità e di benessere di cui lo Stato nazionale deve farsi garante, come previsto dalla stessa Costituzione che il ddl in oggetto non può modificare. Come pure garante deve esserlo nei confronti della conservazione dei beni storici, della prevenzione dai dissesti idrogeologici, dalle inondazioni, dalle frane, che non sempre sono opera solo di calamità naturali, ma sono determinate o favorite dall’azione deleteria dell’uomo a cui questa proposta di legge non pone alcun riparo-.

La prevalenza del privato sul pubblico, trova una sua estremizzazione nella questione residenziale.

E’ stato proposto (e in alcune Regioni applicato), che nella realizzazione di nuove costruzione fosse imposto ai promotori la cessione di una quota di edificato da riservare all’edilizia residenziale pubblica; cessione che doveva essere considerata uno “standard aggiuntivo”. Il ddl inserisce nel conteggio delle dotazioni territoriali, ovvero nei nuovi standard, la casa in proprietà. Che, data la sua rilevante presenza in Italia (superiore agli altri Paesi dell’Unione), appare come il tentativo di far apparire la dotazione territoriale nel nostro Paese molto ricca, anche se queste stesse case sono poi prive delle attrezzature territoriali necessarie e obbligatorie (gli standard)..

La proposta di ddl contiene due aspetti positivi. I tributi dovuti per effetto delle previsioni urbanistiche il ddl suggerisce che non debbano essere previsti fintanto che le medesime non siano contemplate nel piano operativo e non solo come accade ora in quello generale non conformativo (art. 9). Altro elemento innovativo riguarda il contributo dovuto all’aumento di valore degli immobili derivante dalla variazione di destinazione d’uso attribuita dai Piano e calcolata al 66% dell’incremento di valore determinatosi a causa della nuova destinazione rispetto alla precedente.

E’ positivo l’auspicio di privilegiare gli interventi nel tessuto già edificato. Ma senza che, oltre a discutibili e discrezionali premi volumetrici, sia previsto un reale effettivo meccanismo di contenimento dell’uso del suolo e l’indicazione di un procedimento che favorisca questo processo, l’auspicio rimane del tutto aleatorio e privo di alcuna efficacia. Ma forse il legislatore fa affidamento al ricorso alla “deregulation”di cui all’articolo 17 che consente che tali interventi siano realizzati con accordi urbanistici, anche in assenza o in difformità al Piano Operativo

Il “razionale” uso del suolo ribadito più volte nel ddl è privo di senso, perché gli amministratori che hanno finora predisposto e approvato i Piani, non hanno mai ritenuto che l’uso del suolo in essi contenuto, fosse irrazionale. Quindi questa affermazione non è destinata ad ottenere alcun buon risultato perchè non esplicita nulla, non intercetta quell’esigenza, quasi unanimemente condivisa, di contenimento dello spreco di suolo finora perpetrato a danno dell’ambiente e della stessa economia dei territori.

Vi è poi all’articolo 3 una certa imprecisione riguardo alle competenze relative ai beni paesaggistici, quasi il legislatore volesse attribuire in forma concorrente, attraverso legge ordinaria, competenze che la Costituzione affida esclusivamente allo Stato, quali appunto il Paesaggio. Inoltre vi è la pretesa (art.5 terzo comma) che sia la pianificazione paesaggistica ad assumere (“contemplare”) le trasformazioni territoriali e non queste ultime a doversi adeguare alle esigenze di tutela del Paesaggio.

Pare anche alquanto discutibile il riferimento alle Forze armate fatto sempre al IV comma dell’art. 3 del ddl in oggetto.

Con il DQT (Direttiva Quadro Territoriale) lo Stato si sostituisce ai territori interessati nella pianificazione, non solo con programmi di interesse nazionale, ma adottando programmi speciali anche a valenza territoriale e questo a molteplici fini fra i quali la promozione di politiche di sviluppo economico locale e altre fattispecie che rendono praticamente onnicomprensiva la facoltà di ingerenza dello Stato nella pianificazione dei governi locali.

E’ inoltre improprio e non pertinente, in una legge che si presume di lunga durata, stabilire quelle norme sulla fiscalità immobiliare che il governo modula costantemente per adeguarsi alle condizioni economiche del Paese e degli enti locali.

La possibilità di costruzione in deroga ai Piani, di modificare le destinazioni d’uso, di trasferire immobili in altra area senza specificare che essa debba avere destinazione “conforme”, oltre alla discrezionalità data a premialità e compensazioni, renderebbe la pianificazione un atto quasi superfluo, ma utile alla commercializzazione dei metri cubi individuati nei Piani.

Con la commerciabilità dei “diritti edificatori” previsti all’art. 12 e l’istituzione di registri comunali che li codificano, la città si manifesta sempre più, secondo questo ddl, non come un organismo complesso (oggi in condizioni già abbastanza gravi di malessere sociale e ambientale), ma come una grande agenzia immobiliare e il pianificatore come un agente di commercio della città trattata come una merce.

“Il governo del territorio è regolato in modo che sia assicurato il riconoscimento e la garanzia della proprietà privata, la sua appartenenza e il suo godimento”. Tutto il ddl si conforma a questo principio inserito al primo comma dell’art.8, non quindi a garantire i diritti collettivi, alla salute, al benessere, alla bellezza, all’efficienza, alla mobilità sostenibile, all’accessibilità ai servizi, alla dotazione di verde, alla tutela dell’ambiente e del paesaggio, diritti urbani che, secondo questo discutibile principio, possono essere sacrificati al supremo diritto della proprietà privata a cui invece la stessa Costituzione pone dei limiti in quanto afferma che “deve essere indirizzata e coordinata a fini sociali”

Ci auguriamo signor Ministro che questa nota e sopratutto l’esame degli esiti delle pratiche degli ultimi venti anni, orientate verso la demolizione del piano urbanistico, ormai ridotto allo stremo, e inefficienti anche riguardo i ritardi che si accumulano nella contrattazione pubblico-privato priva di regole e condotta caso per caso, come recentissimi esempi insegnano, possano far riflettere lei e i suoi collaboratori .

Grati dell’attenzione le porgiamo un cordiale saluto.

Luisa Calimani
Giulio Tamburini
Antonio Perrotti
Manlio Marchetta
Loredana Mozzilli
Sergio Lironi
Piergiorgio Bellagamba
Teresa Cannarozzo
Laura Mancuso
Laura Fregolent
Giancarlo Storto
Maurizio Rossetto
Luca Fanton
Francesco Indovina
Valeriano Pastor
Anna Braioni
Michelina Michelotto
Vezio De Lucia
Barbara Pastor
Arianna Rossi
Franco Mancuso
Serena Jaff
Francesco Lo Piccolo
Paolo Pavan
Maurizio Garano
Vittorio Caporioni
Marino Folin
Ettore Janulardo
Giacomo Massarotto
Fernanda Faillace
Melania Cavelli
Guido Mase’
Cristiano Toraldo di Francia

Un commento

  1. Peccato che questa lucidissima, circostanziata e condivisibilissima posizione sia firmata da pochi architetti e non sia la posizione ufficiale del consiglio nazionale degli architetti!

I commenti sono chiusi.