Amiamo questa terra. E’ la nostra cultura

La metafora di un’Italia che cade a pezzi in molti luoghi del Paese si è tramutata in realtà concreta: l’alluvione in Veneto, il crollo a Pompei, in queste ore esondazioni e smottamenti al Sud. Non è stata la prima volta e, malauguratamente, non sarà l’ultima. Vedere un pezzo del Nord Est sott’acqua per giorni, quasi nel silenzio generale, ha fatto male a chi ama l’Italia. Essere all’estero mentre la Domus dei Gladiatori si sbriciolava è stata una doppia ferita: l’eco della notizia fuori dai nostri confini è stata degna della gravità del fatto, sovrastando il resto, perché il mondo ama la nostra terra soprattutto per la straordinaria bellezza che ospita. Per la nostra cultura.

 

La politica ci ha messo un po’ a distrarsi da se stessa: giusto per dire che su Pompei non ha responsabilità, per fare tardiva presenza nei luoghi colpiti dall’alluvione o per non perdere un’altra occasione di visibilità mediatica. Sembra che molta parte del mondo politico non ami più l’Italia. E siamo proprio sicuri che anche il popolo che esso rappresenta non abbia smesso di farlo da tempo? Perché chi ama qualcosa ne ha cura, lo custodisce, lo alimenta, ne immagina il futuro e cerca di prevenire ogni danno all’oggetto del proprio affetto. La cura non può essere un rimedio, come ci stanno dimostrando accorrendo affannati sui luoghi dei disastri. Essa deve partire prima, da più lontano, e raccogliere frutti dopo, lontanissimo.

 

Di fronte agli avvenimenti degli ultimi giorni, e anche ai drammi personali che molte persone stanno affrontando con grande dignità, è forse giunto il momento di rinunciare a cercare responsabilità dirette: senza cura sono tante e così concatenate che non se ne uscirebbe. Bisogna intervenire, certo, ma è inutile puntare il dito perché in fondo siamo tutti responsabili. Se è vero che il territorio è un bene comune, allora è colpa di tutti. Da decenni lo stiamo violentando senza ritegno: chi nel suo piccolo, chi alla grande. E spesso i più prodighi nel farlo sono quelli che ne fanno bandiera, che confondono l’amore per i propri luoghi con una possessività invasiva, degna del peggior amante. Il nostro territorio, bene comune, appartiene a noi come al mondo intero, assumiamocene la responsabilità, e torniamo a prendercene cura. Iniziando a conoscerlo, a studiarlo a scuola: la conoscenza prepara all’amore e solo l’amore garantisce la cura.

 

La galleria di fotografie che Repubblica.it sta raccogliendo tra i lettori, che immortalano beni culturali in stato di abbandono o di sfacelo, sfregiati da vandali comuni o amministrazioni pubbliche non meno vandaliche è davvero una galleria degli orrori. La cosa più sconvolgente è la capillarità di questi casi: sono ovunque. Immensi o minimi: fa lo stesso. Perché è la stessa cosa lasciare che un monumento che ha duemila anni crolli o che una spianata di cemento occupi un campo da coltivare. Una villetta abusiva sfregia il territorio come un graffito su un reperto archeologico. La distruzione di un antico terrazzamento per far posto a nuove vigne che trasformano le colline in scivoli è come la facciata decrepita di un vecchio palazzo che ha fatto la storia di una città.

 

Dimentichiamo che l’unica ricchezza di cui non potrà mai fare a meno questo Paese è il nostro territorio, perché è lui in primis che esprime la grandezza della nostra cultura, tutto ciò che ci piace identificare come “Italia”. E se un’industria, com’è stato detto, potrà anche «fare a meno dell’Italia», gli italiani invece non possono permetterselo. Non possono permetterselo gli agricoltori che poi sono sempre i primi a subire le conseguenze dei dissesti idrogeologici, ma non possono permetterselo nemmeno i nostri concittadini più urbanizzati. Ci vuole cura del territorio, amore sincero. Un amore che parte dal locale, da quel campo dove con passione si fa piccola agricoltura, dal quel rio che lo irriga con acque pulite e sicure, dai bordi delle strade statali disseminate di rotonde (che però fanno tanto “politica del fare”), dalla piazzetta anche più insignificante. Amore che puntualmente poi arriva al globale: al “Made in Italy” che gira per il mondo, ai luoghi turistici che entrano nelle classifiche dei posti più affascinanti del Pianeta, ai nostri monumenti simbolo.

 

Con la prospettiva della cura, succede che una piccola parte contribuisce a preservare il tutto. Da questo punto di vista l’agricoltura di piccola scala è più che virtuosa. Perché con essa si difende diversità, restano integri pezzi di terra, ambienti e paesaggi, circolano i saperi collegati, si fa cultura. Eppure da più parti si sostiene che essa sia “di nicchia”, che non sia competitiva, non economicamente rilevante, difficile da esportare, terribile da distribuire con i grandi canali che si sono creati. Invece la realtà è che è diffusa in tutte le regioni e presidia il territorio con azioni minime ma indispensabili. Per esempio la manutenzione degli argini, la pulizia dei boschi o dei fossi. Sia chiaro: se si difendono queste pratiche si sta difendendo il Colosseo. Se si evita una colata di cemento inutile si difende un bene culturale.

 

A pelle sembrerebbe condivisibile la preoccupazione del Governatore Zaia che dice: «Prima i soldi al Veneto e poi a Pompei». Ma se si ragiona in termini di cura e relazioni, di cause ed effetti, di educazione e futuro, si vede bene che non siamo di fronte a due opzioni alternative. La cosa che più tristemente ha sorpreso della sciagura che ha colpito il Veneto è stata la relativa indifferenza del resto del Paese, per quasi una settimana mentre l’acqua laggiù non defluiva. Pompei invece ha subito invaso i giornali di tutto il mondo. Ma pur con due trattamenti mediatici così diversi quegli eventi sono stati causati dalla stessa storia di sciatteria e avidità. E possono essere rimediati solo se, da subito, si mettono entrambe queste voci a pari merito, in cima alla lista delle priorità di ognuno.

 

Di Carlo Petrini

Fonte: La Repubblica