Bulimia edilizia in provincia di Como: il caso della Collinetta

Il caso della Collinetta, progetto di 74 appartamenti previsto in un’area verde di particolare sensibilità ambientale posta a confine tra i comuni di Cadorago e Fino Mornasco, e la mobilitazione che ne è seguita, reale o strumentale che sia, offre spunti di riflessione che vale la pena di indagare.

Al di là degli aspetti che riguardano le diseconomie ambientali, sociali e imprenditoriali come pure i risvolti d’illegalità che sono senz’altro noti ai frequentatori consapevoli di questo sito, una prima considerazione merita la comunicazione mediatica dell’intervento: un rendering che mostra all’interno di una macchia di verde fitto, la concentrazione di condomini dalla tipologia e dal colore riconducibili all’iconografia dell’edilizia intensiva di triste memoria degli anni ’70: vera e propria provocazione al sentire comune che riconosce il condominio come emblema prima della concentrazione urbana poi dell’omologazione standardizzata che spersonalizza l’abitare e che lo connota di significanze negative tout court.

Il rischio è quello di individuare nell’intervento della Collinetta tutto il male possibile, senza vedere che lo scempio dei nostri territori è partito da molto lontano, ha potuto avere luogo con interventi meno vistosi ma più diffusi, e continua con l’approvazione di PGT indecenti.

Ho sentito affermare da chi si oppone all’intervento da una posizione istituzionale, che sarebbe stata altra faccenda il realizzare un’edilizia estensiva di pregio (leggi poche ville di lusso): negando uno dei principali assiomi urbanistici che attribuisce alla concentrazione volumetrica in altezza, una maggiore salvaguardia del contesto rispetto all’edilizia estensiva; come se il verde privato dei giardini, fosse altro rispetto alla manomissione del luogo… Questo esempio è illuminante riguardo alla contraddittorietà delle diverse reazioni scatenate dall’intervento e deriva dalla mancanza di una cultura popolare urbanistica consolidata che si dia un linguaggio proprio e quindi dei valori condivisi di ciò che è il territorio comune, in tutte le sue implicazioni. L’intervento della Collinetta può fornire un’occasione esemplare per tentare di ri-costruire una grammatica comune.

Perché non riconosciamo più i nostri luoghi? Ci siamo abituati a considerare il territorio del nostro vissuto come un vuoto pieno di oggetti: passiamo da un involucro all’altro ignorando lo spazio intermedio, in una sorta di rimozione prima visiva e che diventa poi irrimediabilmente di senso.

Vicini all’anno zero di un processo mentale che ricrea la vacuità in ciò che il Rinascimento aveva riempito di sostanza come conquista di uno spazio significativo. E come darci torto, se i nostri paesi sono una sfilata di appartamenti senza abitanti, immobili industriali senza industrie, spazi commerciali senza consumatori, bar senza avventori, sale gioco e scommesse varie e compro oro e massaggi e sale benessere per un’umanità compulsiva. I nostri quartieri sono pieni di piani residenziali costruiti intensificando la volumetria per aumentare i profitti di investitori falliti e risorti come l’araba fenice e costretti a reiterare il danno dal meccanismo di ricapitalizzazione del credito bancario.

Per ritrovare l’unitarietà e la fluidità dei luoghi, dobbiamo andare via, uscire dai nostri confini . Non è paradossale oltre che tragica questa passiva rassegnazione alla perdita? Diamo per ineluttabile il non senso con cui mortificano il teatro delle nostre vite, la dissolvenza del diritto ad abitare luoghi coerenti.

Allora cosa definisce il valore di un paesaggio? Ogni paesaggio esprime in se una bellezza che gli è propria e che deriva dall’essersi formata attraverso l’adattamento del luogo alle diverse funzioni specifiche che la comunità umana di quel luogo si trova a dover portare a compimento. Bello è il paesaggio che deriva dalla manomissione agricola del luogo, bello il paesaggio dei filatoi e delle filande lombarde prima e delle fabbriche dopo, del rapporto inconsueto che stabiliscono con esso attraverso la presenza delle macchine: ferro e lavoro, sonorità e nuovi conflitti in una sorta di contaminazione che crea scenari e modelli in evoluzione. Bello il moltiplicarsi delle tipologie abitative, la cui varietà e coesistenza è motivata da un’ effettiva trasmigrazione di nuovo nomadismo, di diversificazione degli stili di vita, di vitalità sociale. potremmo dire con una semplificazione dovuta dal caso, che la bellezza del paesaggio viene definita quando nel metabolizzare le funzioni umane con lo spazio che le deve contenere storicamente, emerge con chiarezza che ogni scelta è compiuta con il criterio della necessità, che legittima trasformazioni e comprende l’invenzione di dissonanze e differenze.

Ma quale necessità perseguono i piani urbanistici, che individuano aree di edificazione a partire da valutazioni di bilancio comunale e per assecondare interessi privati di natura speculativa?

Il principio del diritto all’edificazione come diritto privato, inscindibile ormai dal concetto di proprietà ha sostituito non solo ogni altra valutazione a monte (demografica, ambientale, di progetto urbano) ma ha anche paralizzato, laddove preesistenti come nel caso della Collinetta, amministrazioni pure sensibili potenzialmente ai temi del consumo di suolo.

Non solo: ha svuotato di reale potere il rapporto che il cittadino instaura con il governo locale, privandolo di fatto della funzione cui tale rapporto deve assolvere, cioè quella di affidare ad un’intelligenza politica la risoluzione dei conflitti che nascono proprio dalla necessaria mediazione tra interessi privati e tutela prioritaria degli interessi pubblici, di cui il territorio non è solo una espressione, ma la sintesi più pura. Gli amministratori non governano questo processo e grottescamente i cittadini deprecano la politica, tutta in solido, consentendole in questo modo di operare liberamente nel peggiore dei modi, senza controllo, senza pudore alcuno.

Allora la risposta non può che venire dalla stessa politica, e prima ancora dalla presa di coscienza del singolo cittadino dei propri diritti: il diritto alla bellezza, ad incidere con i suoi diritti naturali anche in quegli ambiti in cui il principio della proprietà privata deve essere subordinato all’interesse collettivo, perché il territorio sia prima di tutto Common Ground; concetto del resto ampiamente consolidato nelle nazioni di cultura decisamente liberale.

Non è vero che non è possibile da parte degli amministratori prendere decisioni diverse: lo dimostrano la Resistenza di Desio e di molti dei Comuni Virtuosi; da sempre la legislazione si adatta magari con ritardo ad un sentire che è già patrimonio comune della società quindi perché non provarci?

Credo che quello che ci stiamo giocando tutti in questa partita, sia ben più che qualche albero tagliato, o qualche ennesimo scempio ambientale. Ciò su cui non possiamo più distogliere lo sguardo è la sostenibilità umana di un sistema che non ha più nemmeno la legittimità delle leggi di mercato e di un concetto di cittadinanza che tutti dovremmo rivedere; o ci ritroveremo per l’ennesima volta a fornire schiamazzi per un carnevale autorizzato da chi poi, nell’indifferenza generale, continua a venderci l’anima.

Silvana Verga
Altro Futuro

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Ricordiamo l’appuntamento di sabato 1° dicembre
Assemblea aperta: STOP ALLA CEMENTIFICAZIONE
ore 21 – Cadorago (Sala Civica in Piazza Zampiero)


Un commento

  1. concordo pienamente e ricordo un testo letto durante i miei studi universitari da architetto in cui l’autore l’americano Kevin Linch proponeva corsi obblicatori di educazione ambientale e percettiva degli spazi urbani!

    mai come oggi, in Italia, se la scuola si fosse occupata anche di questo coltivando la sensibilità dei futuri cittadini le questioni legate al pèaesaggio non si porrebbero in maniera così estrema!

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