I signori della green economy

Neocapitalismo tinto di verde e movimenti glocali di resistenza, Green economy e “false solutions” per combattere il disastro ambientale ed umano a cui stiamo assistendo.

Il nuovo libro di Alberto Zoratti e Monica Di Sisto, con prefazioni di Maurizio Landini e di Maurizio Gubbiotti, e presentazione di Francuccio Gesualdi del Centro Nuovo Modello di Sviluppo. Un lavoro che vuole mettere assieme giustizia sociale, ambientale e vuol contribuire a rifocalizzare sul concetto di Green economy (edizioni EMI).

 

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La prefazione di Maurizio Gubbiotti

Quello che abbiamo di fronte è uno scenario mondiale molto complicato e drammatico con ingiustizie molto grandi e forbici tra chi sta bene e chi sta male, che si allargano. Con due componenti caratterizzanti: crisi ambientale e Governance mondiale scomparsa, spesso surrogata da strutture economiche e finanziarie sempre più spietate e voraci.

Per la prima parlano oltre sei milioni di migranti ambientali costretti ogni anno ad abbandonare le proprie case e i luoghi dove sono nati e cresciuti a causa di eventi come uragani, tsunami, terremoti o alluvioni. Un fenomeno che per il 2050, secondo stime dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), potrebbe riguardare 200/250 milioni di persone. Stime per difetto purtroppo visto che solo nel 2011 sono stati ben 302 gli eventi catastrofici che hanno colpito circa 206 milioni di persone (164 milioni in più rispetto al 2010) e causato danni economici pari a 380 miliardi di dollari (fonte International Disaster Database EM-DAT).

La seconda componente è data da una forte mancanza della politica nella Governance mondiale, che dopo essere passata dalle formule G7/8, G20, G2, ma anche G77, non fa apparire all’orizzonte risposte credibili, con le Nazioni Unite spesso pungiball o spinte nell’oblio, e dove quindi poi organizzazioni economiche e finanziarie prendono il sopravvento.

In questo quadro entra con ragionamenti, suggestioni e proposte, “I Signori della Green Economy”, il libro di Zoratti e Di Sisto in cui un capitolo prende persino in prestito il titolo “Il quinto elemento”, dal film di fantascienza del 1997 diretto da Luc Besson, e basato sulle avventure di un terrestre, Korben Dallas, che da tassista si ritrova a dover salvare il mondo dalla distruzione certa. Un’analisi molto lucida e senza sconti degli autori, che definiscono il Terzo Millennio segnato dalla lotta tra privilegio ed esclusione, tra volontà di potenza ed esigenza di vita. Dove il sistema capitalistico si è sostituito, come telaio, alla società stessa. Un capitale libero di muoversi senza regole né controlli, ci spiegano, ed una politica ed una società civile sempre più in balia di un’economia somministrata e assunta come la panacea di ogni male. La finalizzazione dell’economia in chiave di speculazione. Nel libro si evidenzia come la corsa all’oro si stia concentrando sulla natura e sui suoi elementi, come crisi ambientale e climatica minacciano la nostra capacità di futuro, e che, con cinismo e freddezza c’è già chi sta provvedendo a trasformarla in business. Io ritengo l’economia verde, o green economy, ma ancora meglio green new deal, via obbligata per rispondere alle crisi che oggi abbiamo di fronte, purché incentrata su giustizia e sostenibilità ambientale e sociale. Ragionando nella sua accezione più larga, come sistema economico low carbon in grado di migliorare il benessere e l’equità sociale, riducendo in modo significativo i rischi ambientali. Un’economia a basse emissioni di CO2 infatti, è un’economia capace di imboccare la strada dell’innovazione di processo e di prodotto, che sa provocare trasformazioni negli stili di vita e nell’organizzazione sociale e che sa stare al passo con la competitività internazionale.

In Italia secondo il Rapporto GreenItaly 2012 di Fondazione Symbola e Unioncamere, la green economy è già una realtà, e fra un quinto e un quarto delle nostre imprese investono in quest’ultima e sono quelle, che nonostante la crisi, esportano di più, innovano di più e assumono più persone. A dispetto di Governi che quando pensano a misure di sviluppo, continuano a riproporre ricette del passato come le grandi opere pubbliche e infrastrutture impattanti, una legge come quella del credito d’imposta del 55% per chi ristruttura introducendo misure di risparmio energetico e di utilizzo di fonti rinnovabili, ha prodotto 17 miliardi di euro di investimenti privati. L’hanno usata 1 miliardo e 400 mila famiglie italiane producendo 50.000 posti di lavoro all’anno. Il 23,6% delle imprese industriali e terziarie con almeno un dipendente che tra il 2009 e il 2012 hanno investito o investiranno, lo faranno in tecnologie e prodotti green. Il 37,9% delle imprese che investono in eco-sostenibilità hanno introdotto innovazioni di prodotto o di servizio nel 2011, contro il 18,3% delle imprese che non investono green. Il 37,4% delle imprese green vanta presenze sui mercati esteri, contro il 22,2% delle imprese che non investono nell’ambiente. L’ultimo rapporto dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), ha sostenuto che lo sviluppo delle energie rinnovabili e l’applicazione di singole misure per una maggiore efficienza energetica hanno il potenziale di creare fino a 5 milioni di nuovi posti di lavoro nel settore dell’economia verde entro il 2020. E sempre secondo lo stesso rapporto solo una migliore gestione dei rifiuti potrebbe creare oltre 400.000 posti di lavoro entro il 2020, ed una riduzione del 17% del fabbisogno di materie prime, a livello Ue potrebbe creare tra 1,4 e 2,8 milioni di posti di lavoro entro il 2025. Un sondaggio realizzato con il programma Onu per l’ambiente (Unep), ha rivelato che non solo i consumatori in tutto il mondo sanno perfettamente con’è la green economy, ma anche che la sostengono per l’importanza nella protezione dell’ambiente (70%), per la possibilità di creare un futuro migliore per i propri figli (68%), e perché migliora la qualità della vita e combatte i cambiamenti climatici (61%).

Ma tutto ciò deve fare i conti con il quesito/slogan dei tanti Social Forum: “Green or greed economy”?

Le tre criticità della green economy, trasparenza della filiera, accaparramento delle materie prime e privatizzazione attraverso la green economy, innervano infatti una mobilitazione mondiale della quale anche il libro è autorevole portavoce. Le tante realtà sociali riunite nella Cupula dos Povos proprio in occasione di Rio+20 hanno parlato di “el asalto final a los bienes comunes”, un modo per estendere lo sfruttamento delle persone e dell’ambiente a nuovi settori, alimentando il mito della crescita economica infinita. Perché parlando di Green economy si deve parlare anche di equità sociale e prendere in considerazione, per esempio, il problema enorme e drammatico di quei miliardi di persone ai limiti della sopravvivenza, che rischiano di aumentare a causa degli effetti del cambiamento climatico. Pertanto non dobbiamo prescindere da alcuni imperativi. Produrre moduli fotovoltaici o componenti per l’eolico in un quadro di sviluppo sostenibile non significa necessariamente che la sostenibilità sia totale. Le filiere produttive, ancora troppo spesso opache ed intangibili, non consentono di conoscere le condizioni di lavoro e di sfruttamento dei lavoratori così come gli effetti ambientali dell’utilizzo di sostanze chimiche nei processi produttivi. Molte tecnologie verdi si rifanno all’utilizzo di alcune componenti, come le “terre rare”, fortemente inquinanti al momento della loro estrazione e di limitata disponibilità. Le politiche di accaparramento di queste materie prime fondamentali per la Green economy (basti pensare ai motori ibridi o ad altre come l’Indio ed il Gallio per le nuove generazioni di moduli fotovoltaici), sta portando a vere e proprie tensioni internazionali così come a politiche neocoloniali da parte dei vecchi e dei nuovi attori della globalizzazione. Per ultimo la spinta da parte della Wto perché s’accelerino gli scambi all’interno del mercato delle tecnologie verdi, senza intaccare la prevalenza della difesa della proprietà intellettuale e della sua dimensione commerciale, rischia di trasformare la Green economy in un nuovo cavallo di battaglia per le multinazionali detentrici del brevetto, capaci di investire ovunque convenga mantenendo però nella casa madre know-how e competenze.

La via d’uscita per il libro è conoscenza e rete, che possono trasformarsi in consapevolezza, responsabilità individuale e poi diffuso protagonismo sociale. E se come gli autori affermano il quinto elemento è la società civile, alla green economy dei privilegiati possono opporsi tante piccole buone economie come ad esempio GAS e Distretti di economia solidale.

Un libro molto interessante e utile, particolarmente ricco di informazioni e che lancia una sfida: i movimenti sociali come il Quinto elemento, ultimo baluardo nella tutela di un pianeta sotto attacco dai Signori della Green Economy.

8 commenti

  1. Il problema di questi 2 autori è che sono vittime di un pregiudizio che gli fa pensare che tutto il male sta nelle fossili e tutto il bene sta nelle rinnovabili. Invece anche nel campo rinnovabili stiamo testimoni di enormi truffe, sperpero di denaro pubblico, mafia, devastazione di territori causata da eolico e fotovoltaico a terra, arricchimenti enormi di lobbisti e truffatori, infiltrazioni lobbistiche molto estese in alcune associazioni ecologiste, e così via.

  2. Penso che il problema di fondo di tutto quello che dovrebbe essere green, sia la mancanza del soggetto principale vale a dire la consapevolezza della gente riguardo la sostenibilità. Comprare made in Cina, Asia… a prezzi che ingrassano pochi e affamano tanti e di conseguenza produrre senza alcun rispetto dell’ambiente e delle persone, non è cosa che interessa i ‘consumatori’, i politici, i religiosi e tanto meno le istituzioni. Green economy è produrre a costi elevati con tecnologie costose, ricerca continua, riduzione degli scarti e dei rifiuti all’origine della filiera, nel rispetto di chi lavora, di chi abita, dell’ambiente. Green economy è rifiuto all’importazione di prodotti che non soddisfino pienamente queste condizioni, anche a suon di dazi. Ma fino a che i debiti pubblici degli stati sono la moneta di scambio commerciale, il green è solo quello dei ‘verdoni’. Il termometro del green è il rifiuto e lo scarto. Se guardate quanta plastica non Conai viene bruciata o sotterrata e quanti rifiuti speciali costipano tutti i buchi colabrodo italiani, potete farvi un’idea di quale brown economy esercitiamo. Il green deve nascere dal basso, dagli usi delle persone e dalla sentita esigenza di migliorare ogni giorno. Se compro biologico ho capito che il mio corpo ha bisogno di carburante pulito. Se conosco i numeri della mietitura degli sforamenti ai limiti di legge degli inquinanti capisco che metano e gpl e uso appropriato dei mezzi aiutano a respirare meglio. Se so che certi prodotti hanno provocato e provocano vittime, non li compro perchè capisco che sono insanguinati e non vorrei che i miei figli, amici, parenti facessero la stessa fine. – Ma cosa posso fare io?-. La mia piccola green economy, pensando, informandomi, scegliendo…E se poi magari spiego a qualcuno quello che scopro e che faccio per…Utopia? Non tanto, impegno civile e amor proprio.

  3. @Marco Galliano: le associazinoi ambientaliste non hanno preso alcun abbaglio anzi sono delle roccaforti di pensiero critico. Le associazioni ambientaliste, a partire da Legambiente, interpretano la Green Economy come una riscrittura alla radice del modo di prelevare le risorse e di usarle, ritornando all’equilibrio, grazie a regole nuove, innovazione, efficienza, cooperazione, partedipazione.Nnon vogliono affatto reiterare la follia del capitalismo e dello sfruttamento eccessivo nè la mitologia di un PIL fatto andare su e giù a prescindere dai servizi ecosistemici e dalla qualtià e giustizia sociale. Vediamo di non attribuire cose mai pensate agli altri, grazie.

  4. Estrapolo da Montella, critico di Kapp, economista ecologico, e da un articolo del Guardian, alcuni punti interessanti che potrebbero meglio definire i limiti della cosiddetta ‘green economy’, ovvero, se concordiamo, il fatto che non muti sostanzialmente l’approccio alle risorse del Pianeta, che sono esauribili, e che quindi non consideri l’ecologia come metro dell’economia e l’uomo come animale del sistema ecologico.”(…) In generale il capitalismo, con la sua straordinaria capacità di innovazione tecnologica, ha segnato un salto di qualità nella capacità dell’uomo di sfruttare l’ambiente e di produrre effetti lesivi per gli equilibri eco sistemici inaugurando inoltre, a livello ideologico, l’idea di una crescita perpetua funzionale ai suoi meccanismi di accumulazione(..)” “Una della più grandi idee sbagliate del nostro tempo è l’idea che c’è in qualche modo una scelta tra lo sviluppo economico e la natura di sostegno. Cento per cento dell’attività economica è dipendente dai servizi e dalle prestazioni fornite dalla natura. Per qualche tempo, durante l’ultimo decennio in particolare, i ricercatori hanno studiato la dipendenza dei sistemi economici da quelli ecologici e nel processo hanno ricavato alcune conclusioni sorprendenti.

    Per esempio, uno studio stima che il valore dei servizi di cattura del carbonio che potrebbe essere guadagnato attraverso il dimezzamento del tasso di deforestazione entro il 2030 equivale a circa $3,7 trilioni. La fauna nelle foreste stesse ha valore enorme , sia per l’uomo che per l’ambiente nel suo complesso.

    L’elenco dei modi in cui la società umana è del tutto dipende dalla natura è incredibilmente lunga, così il nostro percorso corrente della distruzione ha un solo risultato logico; una volta che abbiamo distrutto abbastanza delle cose da cui dipendiamo, la nostra società non sarà in grado di funzionare. È incredibile che persone che presumibilmente sono così intelligenti sono irremovibili nella loro convinzione che la crescita indefinita è possibile in un sistema chiuso.”

    http://www.Guardian.co.uk/environment/Blog/2013/Jan/09/Economy-Nature

  5. alla fine degli anni settanta,si diceva e scriveva in ambito universitario, ma con ambizioni politiche, che il sistema capitalistico dopo aver distrutto l’ambiente( nella sua più ampia accezione)si metteva a ricostruirlo;infatti.Non mi meraviglio, dunque, se oggi tutto, anche la ricetta di cucina televisiva si conclude con …la sostenibilità.La moda ambientale è devastante; il modo di affrontare questa sopravvivenza no, invece pone baluardi precisi, obbiettivi impegnativi fatti innanzitutto di rinuce.

  6. Che GreenItaly, Fondazione Symbola e Unioncamere dicano che la green economy in Italia è già una realtà è assolutamente indicativo di quanto da me tetto prima, nonchè ridicolo.
    In Italia, e in tutto il mondo, si fanno passare per green-economy meri interventi di cosmesi aziendale (green washing) oppure, ad esempio, la diffusione di impianti industriali rinnovabili speculativi nelle aree naturali e verdi.
    Poi si mescola tutto ciò con gli interventi per la sacrosanta, vera, efficienza energetica e si ottiene un prodotto di marketing che contiene al suo interno tutto e il contrario di tutto, un po’ di bene e un po’ di male, e un (bel) po’ di truffe.
    Esattamente come capita nella normale economy.
    Ergo, la green economy non esiste. È un falso mediatico, un prodotto del marketing aziendal-politico.

    1. Caro Marco, infatti. E’ proprio la tesi che sosteniamo nel libro. La Green Economy ha un’apologetica che ricorda solo la rivoluzione verde della Banca Mondiale. Sul blog riportato in pagina puoi leggere, oltre alla prefazione di Gubbiotti anche quella di Landini e la scheda del libro. Sull’intervista di Megachip (http://www.megachip.info/tematiche/beni-comuni/9765-i-signori-della-green-economy.html) trovi la nostra posizione, che mi pare abbastanza chiara. Ciao

  7. La cosiddetta “green-economy” è probabilmente il più grande abbaglio, nella migliore delle ipotesi, o truffa del secolo.
    Peccato che a cascarci come pere cotte siano stati fior di “ecologisti” e di associazioni “ambientaliste” che si sono prestate a fare opera di green-washing per multinazionali, aziende nazionali, politici tromabati e imprenditori delle rinnovabili industriali speculative.
    In futuro si riderà di tutto ciò, se va bene, oppure si piangerà, se va male.

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