ReSet e CaffeinaCultura, a Viterbo si parla di futuro

Discutere di energia, ambiente e futuro, confrontando idee ed esperienze, per leggere la realtà che ci circonda e creare le basi di un futuro possibile. Il centro storico di Viterbo ha ospitato il 2 luglio l’incontro “Cultur’Ambiente per Territorio Zero”, organizzato dall’associazione ReSet, Rete di Salvaguardia del Territorio, nell’ambito del Festival CaffeinaCultura, ormai un appuntamento estivo tradizionale la cui eco supera i confini della Tuscia.

Molti i relatori e gli ospiti intervenuti, da Riccardo Valentini, Premio Nobel per la Pace nel 2007 insieme all’ex vicepresidente americano Al Gore e altri scienziati dell’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change) ad Angelo Consoli, Direttore dell’Ufficio Europeo di Jeremy Rifkin. Da Livio De Santoli, Professore ordinario di impianti e fisica tecnica presso l’Università La Sapienza di Roma e autore de “Le Comunità dell’Energia”, al professore di ricerca applicata Lino Barbieri, Chimico e Biologo. Senza dimenticare il giornalista di “Repubblica” Marco Corrias, con la sua inchiesta sulle rinnovabili industriali, Gavino Sale presidente di iRS – indipendentzia Repubrica de Sardigna e le esponenti “No Coke” Simona Ricotti e Marzia Marzioli.

Di seguito l’intervento di Marco Bombagi, redattore del Forum “Salviamo il Paesaggio”, all’incontro “Cultur’Ambiente per Territorio Zero”, organizzato il 2 luglio dall’associazione ReSet, Rete di Salvaguardia del Territorio:

“Siamo passati dai campi di sterminio allo sterminio dei campi”, una frase di Andrea Zanzotto, splendido poeta, tra i più significativi della seconda metà del novecento, può essere la sintesi di tutto ciò di cui discutiamo. Parole terribili e meravigliose perché costituiscono la fotografia dell’Italia in cui viviamo.

E non da oggi. L’obiettivo delle 911 associazioni, nazionali e locali, e dei 151 comitati in tutto il Paese che compongono il Forum Nazionale “Salviamo il Paesaggio – difendiamo i territori” è stato ed è, appunto, fermare lo sterminio dei campi, il consumo di suolo.

Che la situazione su questo fronte in Italia sia molto grave è sotto gli occhi tutti, ma leggere i numeri aiuta comprendere meglio la gravità della realtà.

Dati Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale, presentati nel Febbraio scorso ad un convegno dal titolo Il consumo di suolo: lo stato, le cause e gli impatti, confermano il trend: negli ultimi anni il consumo di suolo in Italia è cresciuto ad una media di 8 metri quadrati al secondo e la serie storica dimostra che si tratta di un processo che dal 1956 non conosce battute d’arresto. Si è passati dal 2,8 % del 1956 al 6,9 % del 2010, con un incremento di 4 punti percentuali. In altre parole, sono stati consumati, in media, più di 7 metri quadrati al secondo per oltre 50 anni. Questo vuol dire che ogni 5 mesi viene cementificata una superficie pari a quella del comune di Napoli e ogni anno una pari alla somma di quella di Milano e Firenze.

In termini assoluti, l’Italia è passata da poco più di 8.000 km2 di consumo di suolo del 1956 ad oltre 20.500 km2 nel 2010, un aumento che non si può spiegare solo con la crescita demografica: se nel 1956 erano irreversibilmente persi 170 m2 per ogni italiano, nel 2010 il valore raddoppia, passando a più di 340 m2.

Il consumo di suolo reca con sé diverse nefaste conseguenze, tra cui l’impermeabilizzazione dei territori che causa a sua volta l’aumento del pericolo di frane, smottamenti, esondazioni. Quel dissesto idrogeologico di cui si parla spesso nei media quando si verificano tragedie, da Sarno a Genova, senza spiegare troppo approfonditamente, però, cosa lo produca.

Scrive Michele Munafò, ricercatore Ispra, su IdeAmbiente del febbraio 2013: “In un ambiente antropizzato, la presenza di superfici impermeabilizzate, la riduzione della vegetazione, l’asportazione dello strato superficiale di suolo ricco di sostanza organica e l’insorgere di fenomeni di compattazione, determinano un grave scadimento della funzionalità ecologica. Se, infatti, in condizioni naturali il suolo è in grado di trattenere le precipitazioni, contribuendo a regolare il loro scorrimento in superficie, al contrario, il suolo impermeabilizzato favorisce fenomeni erosivi accentuando il trasporto di grandi quantità di sedimento, con una serie di effetti diretti sul ciclo idrologico, producendo un aumento del rischio di inondazioni, e di effetti indiretti sul microclima e sulla vulnerabilità ai cambiamenti climatici, contribuendo anche al riscaldamento climatico a scala locale”.

Ancora l’Ispra ci dice che in Italia, 30 mila chilometri quadrati (un terzo del territorio nazionale) sono “ad alta criticità idrogeologica”, ossia soggetti ad alluvioni, frane e valanghe.

A causa di questi eventi, l’Italia ha avuto oltre 4100 morti negli ultimi 50 anni, mezzo milione di sfollati e senza tetto, danni per 62,4 miliardi di euro. I comuni italiani interessati da frane sono 5.708, pari al 70,5% del totale. Di questi oltre la metà è classificata con livello di attenzione ‘molto elevato’. Sono circa 700 i punti della rete viaria italiana e 1800 di quella ferroviaria che hanno un rischio elevato di riattivazione di frane già riscontratesi in passato.

Eccessiva urbanizzazione significa anche diminuzione delle superfici agricole, e di conseguenza deficit nella produzione agroalimentare.

Il rapporto di causa effetto è strettissimo. Scrive Franco Ferroni, responsabile policy sulla biodiversità Wwf Italia, su “Terra Rubata, viaggio nell’Italia che scompare” il dossier realizzato da Wwf appunto e Fai, Fondo per l’Ambiente Italiano, nel 2012: “Senza dubbio l’incidenza maggiore nella perdita di suolo in agricoltura è imputabile al cambio di destinazione d’uso a vantaggio delle aree urbanizzate e delle infrastrutture di vario tipo. Sono stati sufficienti alcuni decenni di non convenienza all’uso agricolo delle pianure italiane per provocarne il sacrificio delle superfici a vantaggio dell’urbanizzazione.

Oggi quasi il 60% delle aree urbanizzate nazionali è collocato in aree pianeggianti, indubbiamente più comode per ciò che riguarda i collegamenti e più vantaggiose in relazione ai costi di costruzione dell’edilizia. In pratica, si è consumato più suolo e in modo più estensivo dove questa risorsa era più disponibile e dove costava meno, anche quando i suoli utilizzati erano ad alta vocazione agricola.

L’interesse alla speculazione legata ai cambi di destinazione d’uso delle aree agricole e all’edificabilità dei suoli sono enormi ed hanno generato spesso un intreccio tra costruttori ed Amministratori pubblici che ha in molti casi stravolto ogni tentativo di seria programmazione e gestione territoriale. Gli interessi dei grandi costruttori sono molto spesso coincidenti con quelli fondiari, chi costruisce case da tempo compra le terre su cui edificare e non sempre le comprano con l’edificabilità già sancita nei piani regolatori. Il guadagno in questo caso si moltiplica, e di molto”.

Consumo di suolo che devasta paesaggio e territori, causa dissesto idrogeologico e impermeabilizzazione dei suoli, cancella biodiversità e porta con sé deficit agroalimentare. Il tutto per edificare, in molti casi edifici a scopo residenziale. Appartamenti e case che da tempo tuttavia, non si vendono.

Gli immobili costruiti negli ultimi anni e rimasti invenduti o mai immessi sul mercato, sono 670mila secondo Nomisma, società di studi economici. Adriano Paolella, direttore generale di WWF Italia, in una recente intervista sottolinea come vi siano 210mila capannoni inutilizzati, 6.700 chilometri di ferrovie dismesse, 5 milioni di abitazioni vuote. Nel 2012 le compravendite nel settore immobiliare hanno fatto segnare un meno 25,8% rispetto al 2011, dati Agenzia del territorio. La contrazione dei consumi di cemento tocca, a fine 2012, il meno 45% rispetto al “picco” del 2006, e un meno 22% sul 2011, dati Aitec, Associazione Italiana Tecnico Economica Cemento. Numeri confermati anche dalla scelta del principale operatore del settore, Italcementi, che nell’ultima assemblea degli azionisti, a metà aprile, ha annunciato una riduzione da 17 a 8 il numero degli impianti attivi sul territorio nazionale, consapevole di un trend ormai incontrovertibile.

Tempo fa ho avuto il piacere di intervistare Paolo Berdini, ingegnere urbanista, docente universitario e scrittore, su questi temi. Gli chiesi ingenuamente: “Se i numeri sono questi perché si continua a costruire?”. “La risposta”, disse, “sta nelle caratteristiche dell’economia finanziaria che si è affermata a livello globale. Oggi sono i grandi fondi di investimento sovrani, i fondi assicurativi o pensionistici ad avere a disposizione una enorme liquidità: invece di destinarli ad attività produttive – sempre difficili e rischiose per rientrare dei capitali investiti – è più sicuro investire nel mattone. Anche se oggi non ci sono le condizioni per vendere, quei fondi scommettono nella ripresa del mercato edilizio che gli consentirà di rivalutare notevolmente i capitali investiti. Sono dunque le caratteristiche della finanza speculativa ad alimentare lo spreco del territorio”.

Prima ancora che speculazioni edilizie quindi, sono finanziarie, ai danni del territorio e del paesaggio.

In tutto questo l’opinione pubblica è sempre più attenta e sensibile a questi temi, consapevole dell’importanza che rivestono per le enormi ripercussioni sulla qualità della vita di ognuno di noi. Lo dimostrano i numeri anche qui. “Per gli italiani le tematiche ambientali (con il 48,2% delle risposte degli intervistati) sono una priorità seconda soltanto al lavoro e alla disoccupazione, è quanto emerge dall’edizione 2013 di Ecobarometro, pubblicata sulla Nuova Ecologia di febbraio 2013 e ripreso da Adnkronos.

Questo crescente interessamento trova riscontro anche nella volontà di essere informati sulle soluzioni possibili per fronteggiare le molteplici problematiche e contestualmente proporre un futuro diverso all’economia.

“Proteggere e conservare il suolo”, scrive Lorenzo Ciccarese ricercatore Ispra su IdeAmbiente “non significa solo mitigare i fenomeni di erosione e dissesto, ma anche salvaguardare le acque sotterranee dall’inquinamento, mantenere la biodiversità, assorbire gas-serra, garantire lo sviluppo della biomassa vegetale. Proteggere e conservare il suolo significa proteggere gli esseri viventi e l’ambiente. Una gestione sostenibile dei pascoli, delle colture agrarie e delle foreste può contribuire inoltre alla valorizzazione e all’efficienza produttiva dei sistemi agricoli e forestali, generando attività e investimenti collaterali, di sviluppo socioeconomico locale, legati alle produzioni agricole e forestali di alta qualità, alla diversificazione dei prodotti sul mercato, alla conservazione di determinate specie animali e vegetali, alla continuità delle tradizioni, alle attività turistico-ricreative”.

Per salvare i suoli è imprescindibile riscoprire il valore sociale dell’agricoltura, come custode di tradizioni e cultura e come opportunità per un’economia nuova, rispettosa e utile per territori e comunità.

“Perdendo terra arabile”, dice Luca Salvati ricercatore del CRA, Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura, “perdiamo non solo parte del patrimonio agricolo in termini quantitativi, ma soprattutto produzioni tradizionali qualitativamente rilevanti.

Non abbiamo ancora statistiche ufficiali, ma abbiamo elementi concreti ed immagini da satellite che lo confermano, per poter affermare che in Grecia, a causa della crisi, numerosi giovani agricoltori che prima non erano tali e facevano altro, dopo aver perso il lavoro sono tornati sulla terra, perché il fenomeno dell’abbandono della terra ha causato la presenza di numerosi campi fertili, quindi ad alto potenziale agricolo, che non sono stati utilizzati negli anni ’90 e nel 2000. Questo è quanto dovremmo fare anche noi in Italia.

“Non abbiamo bisogno di iniziative spot”, conclude Salvati, “ma di un monitoraggio permanente, di misurare continuativamente il consumo di suolo, la perdita dell’agricoltura e la crescita delle foreste, mettendo in condivisione strumenti e conoscenze; questa sarebbe una delle prime misure, peraltro senza un dispendio economico eccessivo, perché le risorse sono già disponibili, occorre soltanto far lavorare insieme i ricercatori e farli lavorare per lo Stato, non ciascuno per il proprio istituto. Inoltre, adotterei una maggiore attività di protezione su base non economica ma sociale, ossia la promozione di pubblicità progresso, di riconoscimento del ruolo sociale dell’agricoltore e dell’agricoltura; noi abbiamo un’agricoltura florida nelle aree rurali strette, ma abbiamo grossi problemi di perdita di suolo nelle zone periurbane, dove c’è un’agricoltura di frangia e dove l’agricoltore tende ad allontanarsi non solo perché economicamente non ce la fa, ma anche perché socialmente il suo status non è riconosciuto”.

“D’altra parte”, si sottolinea ancora nel dossier Terra Rubata, “il sempre minore rendimento delle attività agricole non riesce a contrastare il fenomeno dell’abbandono dell’agricoltura favorendo anche nuove forme di utilizzo del suolo. Da un ettaro seminato a cereali (grano duro e tenero) per un’area agricola vocata un agricoltore può ottenere oggi una rendita netta di circa 600 – 700 euro/anno. Per l’utilizzo dello stesso ettaro di suolo agricolo da destinare ad un impianto fotovoltaico a terra la rendita può arrivare a 4.000 euro/anno esenti da tasse. Per fermare la perdita irreversibile del suolo è necessario pertanto sostenere il reddito delle imprese agricole e riconoscere anche economicamente il ruolo di presidio che gli agricoltori svolgono sul territorio”.

Per salvare i territori, inoltre, sarebbe efficace riuscire ad intervenire su quelle norme che consentono ai Comuni di utilizzare gli oneri di urbanizzazione per pagare le spese correnti.

“In carenza di altre risorse”, si legge ancora nel dossier di Wwf e Fai, “questa norma ha incentivato da parte delle amministrazioni locali il cambio della destinazione d’uso dei terreni agricoli in aree edificabili anche in assenza di un reale fabbisogno al fine di aumentare le entrate nei propri bilanci per mantenere i servizi essenziali. La speculazione fondiaria, minori costi e maggiori plusvalenze nel mercato immobiliare, maggiori entrate da oneri fiscali e di urbanizzazione per gli Enti Locali spingono inesorabilmente verso un cambio di destinazione dei terreni agricoli”.

Un futuro possibile per il Paese passa necessariamente attraverso la preservazione di tutto ciò che l’Italia ha, di meraviglioso e inestimabile, da offrire a se stessa e al mondo intero. Il paesaggio, inteso come scrigno non solo di tradizioni e storia, ma anche vetrina per un turismo di qualità.

Un’occasione per creare un progetto di lungo respiro, per un modello economico che crei ricchezza e lavoro sani. Perché “la gente può anche mangiare di cultura”, potremmo dire confutando l’infelice frase di un noto ex ministro, che esprime però un concetto deleterio che ha fatto e continua a fare proseliti. La cultura infatti non crea solo persone migliori ma può significare anche un’economia migliore.

“L’Italia è all’ultimo posto in Europa per percentuale di spesa pubblica destinata alla cultura (1,1% a fronte del 2,2% dell’Ue a 27). È quanto emerge da uno studio pubblicato in aprile da Eurostat, l’Istituto di statistica europeo, che compara la spesa pubblica nel 2011. La Germania spende l’1,8%, la Francia il 2,5% e il Regno Unito il 2,1%. E la crisi economica c’entra poco, dal momento che la Grecia, che per prima e più di noi soffre i colpi del mercato, spende nella cultura l’1,2% del Pil, 0,1% in più rispetto a noi.

Proprio oggi, infatti ho dovuto integrare all’ultimo minuto, è stato presentato il Rapporto annuale 2013 di Federculture che sottolinea come negli ultimi 5 anni il settore della cultura abbia subito 1.3 miliardi di tagli e il MiBac abbia visto diminuire del 27% in dieci anni i propri fondi. E questo nonostante l’Italia detenga il maggior numero di siti tutelati dall’Unesco come patrimonio dell’umanità (47 siti), anche se non arrivano buone notizie da Pompei , seguita dalla Spagna (44 siti) e dalla Cina (43).

Cultura è anche turismo come sappiamo e in Italia questo comparto rappresenta il 9,5% del Pil e dà lavoro a circa 2,2 milioni di addetti. Solo nella Capitale, secondo il recente studio di Federculture, Fai e Italia Nostra dal titolo “Roma: non c’è economia senza cultura”, “le attività culturali e creative producono un valore aggiunto di circa 9,5 mld di euro l’anno e 141mila occupati. Nel settore del turismo, che per le caratteristiche della città di Roma non può non definirsi culturale, operano quasi 16.000 aziende con oltre 90mila occupati. La cultura, con l’indotto, è dunque un bacino occupazionale per la città di primaria importanza”. E i margini di miglioramento, se così possiamo dire, sono amplissimi.

Lo stesso studio ci dice che “i primi 5 musei di Roma realizzano 3,6 milioni di visitatori all’anno; quelli di Londra 25,3, di New York 15,4, i musei di Parigi 23,4, mentre a Istanbul sono 7 milioni e a Tokyo quasi 10. Nei teatri non va molto meglio: a Roma, infatti, in un anno entrano circa 2 milioni di spettatori; in quelli di New York sono oltre 28 milioni, a Tokyo 12 e a Londra circa 14 milioni. Se nel turismo, infine, crescono le presenze, 23 milioni nel 2012, Roma è ancora meno visitata di Parigi, 29 milioni di presenze, e di Berlino, 25 milioni”.

Roma è un simbolo, in quanto capitale, delle strade sbagliate intraprese fino a questo momento in Italia. Di una nazione che ha scelto di rinunciare a se stessa, ai propri punti di forza.

Paesaggio, suolo, qualità della vita, cultura, istruzione ed economia non sono categorie scisse tra loro, ma compongono insieme quel complesso mosaico che è l’esistenza di una comunità, di una Regione, di un continente.

Promuovere la cultura significa portare avanti l’idea di un turismo sano, rispettoso della bellezza e della storia, innovativo e insieme tradizionale, che significa salvare paesaggio e suoli, che significa migliorare la qualità dell’aria che respiriamo, del cibo che mangiamo e dell’acqua che beviamo, che significa migliorare la qualità della vita di ognuno di noi, che significa cambiare noi stessi, che vuol dire spingere a cambiare modello di sviluppo economico.

Un celebre capo indiano, noto all’uomo occidentale col nome di Toro Seduto, una volta disse: “Solo quando l’ultimo fiume sarà prosciugato, quando l’ultimo albero sarà abbattuto, quando l’ultimo animale sarà ucciso, solo allora capirete che il denaro non si mangia.”

Ebbene, speriamo di accorgercene prima.

Marco Bombagi
www.salviamoilpaesaggio.it
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