Il ritorno del lupo

di Franco Correggia.

Il recente ritorno del lupo nelle campagne collinari nord-astigiane (documentato in modo inequivocabile dalle osservazioni dirette, dai video delle fototrappole, da tracce e impronte specifiche e da segni di alimentazione e predazione), se osservato in una prospettiva sistemica, dovrebbe essere valutato come una buona notizia. In un mondo dove le attività antropiche sono causa dell’estinzione di almeno 30.000 specie viventi ogni anno e hanno precipitato il pianeta nella sesta estinzione di massa che ha colpito vita sulla Terra, la ricomparsa nei nostri sistemi di alture e vallate di un predatore apicale quale il lupo grigio dovrebbe essere considerato un fatto positivo.

Un elemento in controtendenza rispetto al generalizzato declino della biodiversità che si registra a scala globale e locale e un segno di salute e vitalità del territorio, che concorre a un parziale ristabilimento di equilibri biologici di base da lungo tempo largamente compromessi. In aggiunta, lo stabile insediamento nell’ambito territoriale individuato dalla parte nord-occidentale della provincia di Asti di un ristretto contingente di lupi potrebbe tradursi in un modesto ma significativo contenimento delle popolazioni di ungulati selvatici (la preda elettiva di questi carnivori generalisti) e in particolare del cinghiale (oggi in vertiginosa espansione).
Tutto ciò però, sia chiaro, non a fronte di un aumento esponenziale del numero di lupi presenti nelle nostre campagne: le peculiarità ecoetologiche di questa specie fortemente territoriale, le sue basse densità di popolazione e le limitate risorse trofiche dell’area rendono infatti impossibile questo scenario. Nella migliore delle ipotesi, all’interno del territorio considerato potrebbe insediarsi un piccolo gruppo sociale di pochi individui cooperanti e integrati (nucleo familiare). Per intenderci, un branco di 4-5 lupi al massimo, costituito da una coppia alfa, dominante e riproduttiva, e da pochi subadulti imparentati di rango inferiore.

Le cose invece, tra le nostre colline, sono andate, in genere, in maniera diversa. Molti hanno considerato il ritorno del lupo non già come la ricomparsa di un prezioso e salutare fattore di regolazione ecologica, bensì come l’avvento di un’autentica calamità, come l’affacciarsi di una minaccia pericolosa e intollerabile. La sua materializzazione sui sentieri che solcano le nostre verdi campagne è stata non di rado interpretata come la sulfurea espressione di una criptozoologia orrifica e infernale, da debellare e annientare con ogni mezzo e senza esitazione.

Beninteso, una precisa categoria di persone che ha legittime e comprensibili ragioni di preoccupazione, esenti da ogni isteria irrazionale ed emotiva, esiste. Si tratta degli allevatori e dei pastori, i cui animali corrono il rischio (come avvenuto anche di recente nell’Alto Astigiano) di essere predati dal lupo. Tuttavia, sotto questo profilo, ci si può difendere in modo efficace. Un’ampia e approfondita letteratura indica una serie di precauzioni, procedure, accorgimenti e contromisure (recinzioni mobili elettrificate, cani da guardiania, misure di custodia, ricoveri notturni, ecc.) che possono prevenire gli attacchi e proteggere in maniera adeguata greggi, armenti e animali domestici in genere. Inoltre è doveroso che gli allevatori colpiti possano beneficiare con tempestività dei risarcimenti e degli indennizzi previsti per legge. È infatti giusto che la collettività, a fronte di un accrescimento della biodiversità e della complessità ecologica di un intero ambito bioregionale, si faccia carico nel suo insieme delle perdite e dei danni subiti dagli operatori del settore zootecnico e agropastorale.

Il punto su cui vorrei qui soffermarmi è però un altro. La mia impressione infatti è che nelle campagne astigiane il panico scatenato dalla sporadica ricomparsa del lupo non sia collegato o agganciato alla preoccupazione per gli eventuali attacchi al bestiame domestico allevato allo stato semi-brado (una realtà piuttosto circoscritta e marginale), bensì derivi dal timore incontrollato che venga messa a repentaglio l’incolumità fisica delle persone. Il lupo costituirebbe una seria e pericolosa minaccia alla sicurezza degli esseri umani che qui vivono e lavorano.
I commenti e le prese di posizione che di recente ho registrato lungo questo piano inclinato, molto spesso, hanno ampiamente superato la soglia che divide una sana prudenza dalla più macchiettistica ridicolaggine. La narrazione locale addensa una teoria infinita di leggende, aneddoti improbabili, mistificazioni, bufale, pregiudizi, fake news, falsità e ingenuità da restare di stucco. Al loro cospetto, le favole esopiche, i racconti gotici quattrocenteschi del Malleus Maleficarum e il “Cappuccetto Rosso” di Perrault si riducono a patetiche e leziose storielle per dilettanti.

Insomma, il lupo, possente e aggressivo, è in agguato. Ci attende nel bosco, al margine del sentiero, dietro la siepe. Silenzioso, famelico, terrificante, con lo sguardo bieco e assassino, l’enorme bocca spalancata e l’agghiacciante dentatura affilata ben in vista, dove tra i 42 denti aguzzi brillano nel buio i possenti canini e i poderosi carnassiali. Da un momento all’altro, senza preavviso e senza scampo, può attaccarci e divorarci. Vorace, selvaggio e feroce, emerge dalla sua cupa e misteriosa dimensione dionisiaca per irrompere all’improvviso nel nostro mondo luminoso e apollineo, apprestandosi a sferrare, con precisione chirurgica e col favore delle tenebre, il suo assalto implacabile e mortale. Si salvi chi può.

Ora, su questo aspetto non mi sembra inopportuno cercare di fare un minimo sindacale di chiarezza. Innanzi tutto, come dato preliminare, va evidenziato come nel rapporto tra specie umana e lupo sia storicamente quest’ultimo a uscirne con le ossa rotte. Anzi, per essere precisi, letteralmente massacrato.
Nella preistoria la presenza del lupo era estesa all’intero emisfero boreale e oltre (Eurasia, Nordamerica, Penisola Indiana). Per molte decine di migliaia di anni, questo versatile predatore apicale è stato uno dei mammiferi terrestri con la più ampia distribuzione geografica e ha colonizzato stabilmente ogni tipo di ambiente. La collisione frontale con l’uomo avvenne con l’avvento dell’allevamento e in particolare della pastorizia. A seguito degli attacchi al bestiame, per le popolazioni pastorali nomadi e stanziali il lupo divenne il nemico giurato per definizione. E così iniziò lo sterminio.
Fin da tempi remoti, la persecuzione fu accanita e il massacro senza quartiere. Nel medioevo la carneficina era già sistematica, per poi accentuarsi ulteriormente, in modo via via crescente, nel XVI, nel XVII e nel XVIII secolo.
Nell’Ottocento e nel Novecento, con lo sviluppo delle armi da fuoco, l’eccidio assunse proporzioni smisurate e puntò dritto all’eradicazione e all’estinzione della specie. La strage si spinse in ogni angolo del pianeta occupato dal lupo. Le sue popolazioni crollarono ovunque. Alla metà del Novecento, il lupo era scomparso o sull’orlo dell’estinzione da gran parte dell’Europa, della Russia, della Penisola Arabica, della Mongolia, dell’India, del Giappone, del Nordamerica, del Messico. La mattanza fu totale, senza scrupoli, senza criterio, senza pietà. Con l’esplicito fine di liquidare per sempre la specie. Nella contrapposizione tra umani e lupi, la nostra specie non è stata esattamente la vittima. Chi ha perso tutto ed è stato oggetto del più sanguinario e spietato massacro è stato il lupo.

Oggi, dopo il trattamento di riguardo che gli abbiamo riservato, il lupo è confinato in territori circoscritti che sono soltanto la pallida ed esangue ombra del suo areale originario. In Italia, per guardare in casa nostra, questo carnivoro era presente su larga parte del territorio nazionale sino alla fine del Settecento. La persecuzione efferata e furente di cui è stato oggetto nell’Ottocento e soprattutto nella prima metà del Novecento lo ha cancellato dall’arco alpino, da quasi tutta la penisola e dalla Sicilia. All’inizio degli anni Settanta del secolo scorso (quando il WWF Italia e il Parco Nazionale d’Abruzzo lanciarono l’Operazione San Francesco, finalizzata a salvare la specie dall’estinzione locale), in Italia il lupo resisteva con esigui e precari nuclei isolati di pochi individui, sparsi in modo frammentario lungo la dorsale appenninica centro-meridionale. Il numero complessivo di esemplari sopravvissuti si aggirava intorno al centinaio. Il declino sembrava irreversibile.

Dopo quel momento critico, si sono intrecciati fatti e circostanze di segno positivo per il lupo (l’approvazione di leggi di conservazione nazionali ed europee, l’espansione della superficie forestale nazionale, il ripristino di alcuni corridoi ecologici, lo spopolamento delle aree montane e rurali, l’aumentata disponibilità di prede naturali, ecc), che hanno consentito al lupo un lento ma costante recupero naturale. Le sue popolazioni hanno conosciuto una fase di espansione sia in termini di consistenza numerica sia di areale geografico, che ha condotto alla progressiva ricolonizzazione dell’intera catena appenninica, poi dell’arco alpino occidentale e infine di alcune aree di collina e di pianura dell’Italia centro-settentrionale.
La specie è attualmente diffusa su poco meno di un quarto del territorio nazionale. Questo non significa tuttavia che i nostri sistemi di rilievi e vallate brulichino di lupi. Oggi (nei giorni in cui giornali locali e nazionali, emittenti televisive, siti web e social media parlano con toni categorici di “invasione” incontrollata dei lupi) si stima, sulla base di monitoraggi condotti con metodi scientifici affidabili, che in tutta Italia siano presenti non più di 1900-2000 individui di lupo. A fronte, per esempio, di circa un milione di cinghiali. E di sessanta milioni e mezzo di esseri umani.

Davanti a questi numeri risibili, tuonare con enfasi e allarme sulla presunta e irrefrenabile “esplosione” del lupo, oppure sproloquiare con veemenza sui pericoli legati al dilagare locale di oceanici branchi del sanguinario e crudele predatore, appare francamente comico. Se poi vogliamo adottare una prospettiva di riduzione di scala e guardare al solo Piemonte, i numeri sono ancora più innocui. Oggi si stima che, in tutta la Regione, siano presenti 150-160 lupi, in larga prevalenza concentrati nella zona alpina: 2 lupi ogni 100 km2 di territorio. Insomma, pur in presenza di una dinamica demografica largamente positiva e in espansione per questo carnivoro in Piemonte, per inveire e stracciarsi le vesti contro il travolgente assalto dei lupi ci vuole coraggio. E anche scarso senso del ridicolo.

Tutto ciò che abbiamo appena sommariamente ricordato ha soltanto la funzione di definire una cornice di lettura fondata su dati oggettivi, in grado di inquadrare in termini razionali la questione del rapporto tra uomini e lupi. Ciò che mi preme con urgenza è però tornare a riportare l’attenzione del lettore sui paventati rischi che incombono sulla nostra incolumità fisica a causa del ritorno del lupo nelle tranquille lande astigiano-monferrine.
Ora, il primo e basilare fatto oggettivo da evidenziare, ben noto a chiunque abbia un’elementare alfabetizzazione naturalistica, è che il lupo evita in ogni modo gli esseri umani, verso i quali nutre atavici e radicati sentimenti di paura e diffidenza. In qualche modo, gli effetti devastanti che sono derivati dall’interazione della sua specie con la nostra, sono rimasti “geneticamente” impressi nella sua memoria. Insomma, i lupi hanno paura di noi e si tengono lontani. Sanno che siamo mortalmente pericolosi.

In tal senso, posso anche riferire un’esperienza personale diretta. In un’occasione, nel corso delle mie esplorazioni floristiche in luoghi a elevata naturalità, ho avuto modo di incrociare un lupo adulto lungo un sentiero boschivo. Ora, io non sono particolarmente coraggioso, ma posso assicurare chi legge che, tra noi due, quello di gran lunga più terrorizzato e spaventato era il lupo. Appena il tempo necessario affinché i neuroni della mia corteccia visiva mi consentissero di mettere a fuoco che lo snello animale che avevo di fronte era un lupo, e il micidiale superpredatore (in realtà timidissimo) si era già dileguato a velocità stellari nel folto del bosco. In silenzio e senza lasciare traccia.
Gli uomini non rientrano per nulla nello spettro delle prede del lupo.
Esistono resoconti del passato (che vanno dal XIV al XIX secolo) in cui si riportano aggressioni all’uomo da parte di lupi, ma la loro veridicità è difficile da dimostrare. Con riferimento all’Italia, senz’altro qualche attacco di lupi a esseri umani è registrato in cronache antiche, ma si tratta di casi del tutto sporadici e occasionali, inseriti in un contesto radicalmente differente (in termini ecologici, sociali ed economici) da quello attuale. Le vittime, pochissime in numero, sono state in genere bambini o adolescenti lasciati soli e incustoditi a sorvegliare mandrie o greggi all’alpeggio. Gli ultimi casi accertati risalgono al 1825. Per quanto riguarda il resto del mondo, per contare le aggressioni di lupi contro esseri umani avvenute in tempi recenti le dita di una mano sono troppe.
 
Guardando all’Italia, credo valga la pena soffermarsi su questo semplice dato: dal 1950 ad oggi, nel nostro paese, il numero di persone uccise dai lupi è stato uguale a zero. Neanche una vittima. Nello stesso identico periodo, i morti causati da incidenti stradali sono stati circa mezzo milione. Lo stesso numero, all’incirca, dei caduti durante la guerra e l’occupazione dell’Iraq negli anni 2003-2011. O il numero degli abitanti della città di Lisbona.
Bene, nonostante questa inequivocabile sproporzione, mi sembra che nessuno di noi, nelle nostre ridenti campagne, si ponga soverchi problemi prima di mettersi ogni mattina al volante dell’automobile, frenato e intimorito dal rischio tutt’altro che remoto di rimanere vittima di un incidente stradale fatale.
Ma quando ci sono di mezzo il lupo e i suoi potenziali attacchi, ecco che allora l’allarme, le preoccupazioni, il timore, l’angoscia e il panico si fanno reali, si ingigantiscono e ci spingono a chiedere a gran voce la neutralizzazione del pericoloso e infausto predatore, intollerabile minaccia alla nostra sicurezza.

Ora, è evidente che quando si ragiona di dinamiche bioecologiche, così come di qualsiasi sistema complesso a elevato grado di non-linearità, sicuro è morto. Non è possibile escludere in maniera aprioristica e definitiva la possibilità teorica, in contesti particolari o in situazioni limite, di un comportamento aggressivo del lupo. Ma oggi le probabilità che chiunque di noi venga attaccato dai lupi circolanti nelle nostre campagne restano ridicolmente basse, prossime allo zero. Se vogliamo preoccuparci, abbiamo ben altre questioni, assai più serie, sulle quali concentrarci. Boschi, prati e sentieri delle ondulazioni collinari astigiane restano un luogo del tutto sicuro per le nostre passeggiate, per il nostro lavoro e per le nostre attività. Almeno per quanto concerne i lupi. I motociclisti che scorrazzano a tutto gas lungo le strade campestri o le battute di caccia sono di certo pericoli ben maggiori.

L’idea violenta e corriva che le difficoltà e le criticità derivanti dal ritorno del lupo si possano risolvere in modo semplicistico con l’eradicazione del problema mediante lo sterminio, in termini tecnici, scientifici e di buon senso, appare inappropriata e irricevibile, per evidenti ragioni di carattere ambientale, ecologico, giuridico, etico e culturale. In particolare, ci fa ripiombare a capofitto in uno degli errori più madornali, drammatici e arroganti commessi in tempi recenti dalla nostra specie: la patetica e proterva convinzione che i conflitti e gli attriti con elementi strutturali specifici dei sistemi viventi complessi si possano superare e risolvere attraverso la loro cancellazione e la loro distruzione. Si tratta di quella visione del mondo semplicistica, banale e malata che, per fare solo uno degli innumerevoli esempi possibili, ci ha portato a credere che i problemi dell’agricoltura potessero essere azzerati con il ricorso massiccio alla chimica, sterminando ogni forma vivente potenzialmente ostile per mezzo dell’irrorazione profusa delle colture con dosi crescenti e letali di pesticidi tossici.
Il risultato di tale approccio, a distanza di tempo, è stato rovinoso e dovrebbe insegnarci qualcosa.

La scienza, la logica, la sensibilità e il buon senso ci dicono in modo chiaro e trasparente che con il lupo, come con ogni irripetibile elemento delle reti intrecciate e creative che formano la filigrana aurea della vita, dovremmo instaurare un rapporto basato non già su una necrofila volontà di annientamento, bensì su una biofilica predisposizione alla coabitazione e al dialogo.

Con il lupo, se una volta tanto lasciassimo che a guidare i nostri pensieri e le nostre azioni fosse la saggezza e non l’irrazionalità, la parola d’ordine non dovrebbe essere guerra, ma alleanza. Non sterminio, bensì convivenza.