Un programma nazionale di difesa idraulica e di difesa del suolo deve preoccuparsi di opere ma anche di vincoli

Lettera aperta del comitato scientifico di ASPO-Italia (Sezione italiana di ASPO – Association for the Study of Peak Oil) al ministro Sergio Costa.

La mattina di lunedì 5 ottobre 2020 è andata in onda su Radio24 l’intervista al ministro dell’ambiente Sergio Costa sul dissesto idrogeologico che ha pesantemente colpito il nordovest del paese, producendo ingenti danni ed alcune vittime. Il ministro ha ragionato esclusivamente in termini business-as-usual, vantando le risorse economiche disponibili da subito (circa 7 miliardi di euro), ma che si fatica a spendere per mancanza di progetti.

Dunque, sarebbe solo un problema economico-tecnico-ingegneristico.
Il nucleo del discorso, cioè l’entità della cifra a disposizione, è stato ripreso e diffuso nei radiogiornali durante la stessa giornata.
Stante la gravità del dissesto idrogeologico del paese, sollecitato sempre più frequentemente ed intensamente a causa della montante crisi climatica, ci si sarebbe aspettati un discorso più adeguato alla situazione, che comprenda anche le cause. Certamente, in molti casi è necessario intervenire con opere di difesa, ad esempio dalle frane o nel rinforzo o rifacimento di ponti e di argini, ma le opere ben poco possono se non sono accompagnate da una rigorosa politica di difesa del suolo. In taluni casi possono essere addirittura controproducenti, se non pensate in termini di bacino ma come riparazione di un danno localizzato.

All’indomani della tragica alluvione che colpì il bacino padano e la Toscana nell’autunno del 1966, fu istituita la Commissione interministeriale (Commissione De Marchi) di cui fecero parte 95 membri, tra cui molte delle personalità più qualificate nel campo dell’idraulica, della meteorologia, dell’idrogeologia, delle discipline agronomico-forestali e dell’economia. Nelle conclusioni della Relazione conclusiva licenziata nel 1970 e presentata dal senatore della Repubblica Prof. Dr. Manlio Rossi Doria, si legge: «Come si è detto, essenziale è affermare che una politica di difesa idraulica e di difesa del suolo non si realizza solo a mezzo di interventi attivi (opere idrauliche, trasferimento degli abitati ecc.), ma anche attraverso interventi, per così dire, negativi, che consistono nel porre limitazioni e vincoli all’uso del territorio».

Ancora: «Un programma nazionale di difesa idraulica e di difesa del suolo deve, pertanto, concretarsi, oltre che in un ‘programma di opere’, in un ‘programma di vincoli’».

Esattamente cinquant’anni dopo, queste parole, mai tenute in considerazione, sono di estrema attualità per chi vuole capire. L’infrastrutturazione e la cementificazione del territorio italiano hanno raggiunto e superato abbondantemente i limiti concessi dall’assetto geomorfologico del territorio italiano. L’aggiungersi della crisi climatica ha ulteriormente, e ancor più lo farà nel prossimo futuro, esacerbato i problemi, con effetti già ora tangibilmente sperimentati dalle popolazioni e registrati nelle cronache.

In questi tempi di pandemia e di conseguente contrazione dell’economia si tende a dare risalto ai generosissimi programmi di investimento del tipo Next Generation EU e Quadro Finanziario Pluriennale (QFP). Nell’allocazione delle risorse non viene però sancita una forte condizionalità ambientale, o fornito uno strumento di riferimento per la valutazione dell’allineamento di questi futuri investimenti, soprattutto in infrastrutture, agli obiettivi sul cambiamento climatico. Teniamo anche presente che le infrastrutture utilizzano moltissimo cemento, la cui produzione, prima ancora della messa in opera, è una delle principali cause di aumento di gas serra nell’atmosfera.

Paradossalmente, mentre una pioggia di denaro sta per riversarsi anche sul nostro paese, la fretta di spendere potrebbe esacerbare il dissesto idrogeologico, se non si elabora contestualmente ed urgentemente una politica che faccia propria la necessità di “vincoli all’uso del territorio”.

Il comitato scientifico di ASPO-Italia (Sezione italiana di ASPO – Association for the Study of Peak Oil).

3 commenti

  1. Assolutamente vero!!. Le opere di messa in sicurezza sono spesso dannose in quanto accelerano i flussi idraulici, distruggono paesaggio ed ocosistemi, devastano gli alevei, aumentano la crisi idraulica : questo per salvaguardare interessi privati puntuali. Opere che semplicemente non dovevano essere realilzzate in aree inadeguate e che spesso hanno comunque valore economico minore degli interventi pubblici necessari alla loro messa in sicurezza. Bisogna ribaltare la prospettiva. Rianturalizzare, aumentare premeabilità e zone umide. Fare di meno, non di più.Fare un passo indietro. La natura non si” mette in sicurezza”. Oggi si spende denaro per peggiorare le situazioni, non dimenticando che ogni emergenza e “semplificazione delle procedure” conseguente è italica occasione di malaffare.

  2. È tristemente vero. Vorrei aggiungere soltanto una cosa: è importantissimo che gli interventi locali e puntuali consistano anche di piantumazioni e siano accompagnati dalla presenza di esperti nel settore del verde. Le giuste piantumazioni hanno spesso salvato zone a rischio.

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