La Civiltà dell’abuso

Attorno al cemento si scontrano due visioni del mondo. Da un lato l’economia dei grandi numeri, ancora dominante, della crescita a tutti i costi, del costruire come elemento di potere, motore di finanze e di presunto progresso. Dall’altro la piccola economia del conservare, avere memoria e migliorare l’esistente, del considerare l’ambiente come risorsa e non come intralcio, della crescita umana piuttosto che quella del prodotto interno lordo.

 

Sono due visioni antitetiche che hanno nello stile del costruire, come ogni forma di civiltà, la loro espressione più immediata e d’impatto, quella che si tramanderà. Se in Italia negli ultimi 15 anni abbiamo coperto di cemento una superficie equivalente a quella di Lazio e Abruzzo messi insieme, nel mondo non si è certo stati da meno: in altre regioni d’Europa si è forse viaggiato a ritmo leggermente (solo leggermente) ridotto, ma quello che sta avvenendo nelle zone a forte sviluppo, come Cina, India, Brasile, Messico o certi posti dell’Africa, in alcuni casi ha dell’orribile.

 

Orribile non è solo l’ingordigia di chi si arricchisce senza scrupoli, e nemmeno soltanto il fatto che si distruggano immense porzioni di natura o intere zone rurali; orribili sono pure gli ambienti che si vanno a creare, quello che si edifica: megalopoli senza senso e senza nulla di bello, spesso nemmeno degnamente abitabile.

 

Eppure il cemento continua ad avere appeal: la sua capacità di generare denaro a costi che non si vedono (ambientali, energetici, in termini di qualità della vita per chi ci lavora e per chi poi ci vivrà in mezzo) rimane inossidabile, tant’è vero che la ricetta che molti propongono per uscire dalla crisi è quella di costruire ancora di più. Le recenti polemiche sui progetti di trasformazione di Milano in ottica Expo 2015 rappresentano forse il terreno di scontro e l’esempio più lampante. Pensare a come sia diventata più brutta negli ultimi 50 anni quella città e a come potrebbe ancora peggiorare fa tristezza. Intanto il Governo sottrae risorse alle detrazioni per intervenire sulle case secondo parametri ecologici (pannelli solari, caldaie a bassa condensazione, finestre a norma con vetri isolanti, cappotto esterno o isolamento interno ecologici, ecc), per destinare il risparmiato alle “opere”, grandi e piccole che siano.

 

Opere che non prevedono di ristrutturare, ma di occupare terre agricole e parchi; non rendere più piacevole l’esistente, ma fare colate di nuovo cemento, non importa dove e con che caratteristiche. È tipico della società dei consumi: produrre cose nuove per poi buttarle, illudere di soddisfare bisogni mentre non si fa altro che disattenderli, perché il sistema ha un disperato bisogno di autogenerarsi. Non siamo noi che abbiamo bisogno di ciò che produce il sistema consumistico, ma è il sistema che ha “bisogno” dei nostri bisogni: c’è dunque da sospettare che scientemente questi non saranno mai soddisfatti.

 

Lo spreco è il motore. Come lo sono le montagne di rifiuti di ogni tipo o di cibo ancora edibile buttato via (4.000 tonnelate al giorno nella sola Italia, fa sempre bene ricordarlo), lo è anche lo spreco di verde, di terreni agricoli, della ruralità, di spazi urbani a misura d’uomo, del bello.

 

Non si costruisce più per tramandare ai posteri qualcosa. Il cemento ha una deperibilità maggiore rispetto ad altri materiali, è il simbolo di una civiltà che inserisce i geni di una fine programmata in quasi tutto quello che produce: che sia un palazzone di periferia, l’imballo di un prodotto da supermercato o un seme Ogm che dà un raccolto sterile da cui non si possono trarre altri semi. L’Italia è piena di edifici fatiscenti costruiti negli anni ’60 e ’70, certi addirittura negli anni ’80, alcuni già disabitati, impraticabili, che penzolano scrostati e pericolosi, terribili. Tutti noi li vediamo, ovunque. Abbiamo continuamente sotto gli occhi la dimostrazione di com’è assurdo continuare a edificare qualcosa che nel giro di qualche decennio non servirà più: quegli obrobri dovrebbero servirci adesso come il senno di poi.

 

Oggi, imparando dagli errori commessi in passato, avremmo l’opportunità di ripensare le città in maniera sostenibile, di ricostruire il rapporto tra città e campagna affinché sia produttivo e mutuamente vantaggioso per chi abita questi ambienti. Ci sono i modi per farlo e sono anche economicamente vantaggiosi. Non è soltanto una questione estetica o ecologica: bisogna cambiare modo di fare economia. Bisogna ripensare il costruire, perché oggi, per come si realizza, è sempre più sinonimo di distruggere.

 

di Carlo Petrini

Fonte: La Repubblica