Consumo di suolo: in cerca di una legge efficace, ma le istituzioni non sembrano comprendere la gravità della situazione

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È in discussione alla Camera il disegno di legge sul “Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato” noto anche come “salva suoli”: da anni il forum Salviamo il Paesaggio (di cui Slow Food Italia fa parte) lavora per arrivare a un testo legislativo davvero risolutivo su questa emergenza, lanciando appelli e iniziative per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni in modo da fermare definitivamente il consumo di suolo libero nel nostro Paese. Eppure, nonostante questi sforzi, il testo inviato alla Camera è ben lontano dall’essere davvero efficace e sembra che le istituzioni non abbiano inteso la gravità della situazione.

Per questo abbiamo chiesto a studiosi ed esperti perché tutelare il suolo è così importante.

Ecco la nostra intervista a Claudio Arbib, professore ordinario del Dipartimento di Ingegneria e Scienze dell’Informazione e Matematica dell’Università dell’Aquila.

Perché dobbiamo preoccuparci di tutelare il suolo?

Viene naturale rispondere con il Vangelo: Il seminatore gettò le sue sementi.

È vero che tutelare il suolo vuol dire mandare in crisi il settore edilizio?

No. Il settore edile va in crisi da solo, perché la sua è una crisi che nasce dalla produzione di beni fuori mercato. Il problema è molto serio e di non facile soluzione: le costruzioni e il loro indotto contano in Italia milioni di addetti e valgono svariati punti di PIL. Ma la risposta non può essere “continuiamo così”: andremmo contro un muro in termini economici, e i sindacati lo sanno bene, al punto da interessarsi ai movimenti per il paesaggio. Purtroppo la risposta non è neppure “costruiamo strade e aeroporti”.

Nel suo ultimo rapporto l’ISPRA certifica le infrastrutture responsabili del 47% del suolo consumato, contro il 30% dell’edilizia. Certo, costruire è sempre sembrata una bella soluzione: work-intensive, materie prime economiche. Cioè tanto lavoro e costi bassi per le imprese. Soprattutto quando non si conteggiano seriamente i costi ambientali, cosa facile perché il ciclo-vita degli edifici – per definizione lungo – dà poca evidenza ai costi di smaltimento. Ma costruire significa (letteralmente) polverizzare montagne, da noi o altrove. Significa produrre inerti complicati da gestire: basta pensare all’amianto, al malaffare legato al movimento terra, a discariche e cave che fanno un altro 17% del consumo di suolo. E significa un Bel Paese disseminato di capannoni inutili, veri e propri rifiuti non dichiarati e abbandonati nelle campagne. È un problema serio, peggiore delle riconversioni del passato: negli anni ’80 la Gran Bretagna dismise miniere e fabbriche d’auto, nel ’90 noi dismettemmo l’acciaio. Fu tutto sommato più facile, le produzioni inquinanti o poco remunerative si spostarono nei Paesi emergenti. Ma le villette italiane non si possono produrre in Cina. Occorre affrontare il problema con coraggio e solidarietà, prendendo atto di una verità apparentemente ovvia: case e autostrade non sono beni di consumo, e quelle che ci sono bastano e avanzano.