Ugo Mattei risponde ai nostri dubbi collegati alla Proposta di Legge sui Beni Comuni

Un mese fa il Comitato Popolare di Difesa Beni Comuni, Sociali e Sovrani “Stefano Rodotà” ci aveva trasmesso un documento contenente le risposte di Ugo Mattei ai quesiti che il nostro Forum Salviamo il Paesaggio aveva formulato in merito alla Proposta di Legge di iniziativa popolare attualmente operativa.

Erroneamente avevamo inteso che le risposte del prof. Mattei (molto sintetiche e in linguaggio fortemente giuridico) fossero da condiderarsi come il semplice anticipo ad un documento maggiormente articolato e divulgativo. Oggi abbiamo viceversa avuto conferma che le risposte sono proprio queste e non ci saranno ulteriori specificazioni.
Provvediamo pertanto a pubblicarle e a diffonderle, lasciando a ciascuno le proprie interpretazioni (e tenendo per noi un certo rammarico per non essere riusciti, nell’occasione, a sviluppare una discussione serena e concreta utile per giungere alla condivisione di una certezza collettiva…).

Ecco i nostri quesiti e le risposte del prof. Mattei:

Il testo ci pare consideri lo Stato come una “Persona giuridica pubblica” e non come una “Comunità politica”, e cioè una “Repubblica democratica fondata sul lavoro” nella quale la “sovranità” spetta al Popolo. Ne consegue che l’abolizione del “Demanio pubblico” viene presentata come la soppressione di un organo della Pubblica Amministrazione e non di un organo dello Stato comunità, oscurando l’idea che si tratta di beni appartenenti al Popolo sovrano. A nostro avviso una legge per i Beni Comuni deve mirare alla ricostituzione del patrimonio pubblico e affermare cioè “la proprietà pubblica” e la funzione sociale della proprietà, come prescrive l’articolo 42 della Costituzione.

Lo Stato “Comunità politica” è un mero costrutto ideologico. Il demanio è pura categoria formale. Il suo contenuto storicamente è definito da norme addirittura sub-legali. Per questo nel corso della storia non ha prevenuto alcuna privatizzazione. Per tale ragione è nostalgico rimpiangerlo.

Ci pare si corra il rischio di limitare la promozione di un ricorso giurisdizionale al solo Stato, annullando l’intervento spontaneo dei cittadini. Nel testo si dice infatti che “all’esercizio dell’azione di risarcimento dei danni arrecati al bene comune è legittimato in via esclusiva lo Stato”, aggiungendo che, per quanto riguarda i beni cosiddetti di “appartenenza pubblica necessaria”, possono agire con “l’azione inibitoria e con l’azione di risarcimento del danno soltanto lo Stato e le persone giuridiche pubbliche”.

Il testo amplia in modo innovativo la legittimazione attiva, per la prima volta, con tutele inibitorie a favore dei beni comuni. Estendere la risarcitoria non avrebbe senso giuridico. Rispetto all’oggi non restringe nessuna garanzia, anzi le amplia.

Pare essere esclusa ogni forma di “partecipazione” popolare alla “gestione” dei beni comuni.

La gestione non attiene alla disciplina del libro terzo della proprietà, che riguarda regole civilistiche sostanziali sui beni.

I beni comuni definiti nel testo “assomigliano” parecchio agli usi civici, tant’è che si afferma che la disciplina deve essere coordinata con quella degli usi civici. Ci domandiamo quindi che fine farà il Commissariato per la liquidazione degli usi civici, i cui poteri sono stati trasferiti alle regioni nel 1977 ed il cui operato va in senso opposto a quello della proposta.

Il coordinamento con gli usi civici – peraltro recentemente riformati con la legge del 2017 – è tema da decreti delegati, non da legge delega. Ovviamente i beni comuni elencati non tassativamente in legge delega sono molto più ampi degli usi civici. Si potrebbe ipotizzare rapporto di genere a specie.

Nel testo si legge: “Quando i titolari sono persone giuridiche pubbliche, i beni comuni sono gestiti da soggetti pubblici e sono collocati fuori commercio; ne è consentita la concessione nei soli casi previsti dalla legge e per una durata limitata, senza possibilità di proroghe”. Ma dove si parla di concessione per durata limitata e senza possibilità di proroghe, significa che al termine della concessione non ci può essere neppure rinnovo con altro soggetto? La normativa europea consente di dare in concessione (es. stabilimento balneare sul lido del mare) solo per una volta? Cosa significa “durata limitata”? E nel caso di concessione in essere, alla fine della concessione il bene quindi ridiventa pubblico a tutti gli effetti (pensiamo ad esempio ai porti turistici)?

Al termine della concessione ai privati, il pubblico dovrà gestire il suo bene con un’apposita istituzione che potrebbe essere attribuita a un’azienda speciale o ad un’altra entità partecipata.

L’elenco dei beni comuni riprende in parte la vecchia definizione del “decreto Galasso”, ora compresa nell’art. 142 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (D.Lgs. 42/2004), ma la vecchia formulazione è più estesa: perché è stata ristretta? Cosa significa in concreto “zone montane di alta quota”? Segnaliamo che non vengono citati i crinali dei monti, che sono zone sensibili e spesso oramai degradate dai parchi eolici. Per quanto riguarda i boschi è intervenuto il D.Lgs. 34/2018 che mette i boschi a reddito: come ci si raccorda?

L’elenco non è tassativo ma puramente indicativo. Si usano le normali tecniche ermeneutiche per capirne il senso. Non serve un giurista per distinguere la tassatività dall’esemplificazione.

Tra i “Beni ad appartenenza pubblica necessaria” non sono indicate le reti di trasporto e quelle di distribuzione dell’energia elettrica e del gas.

Vale quanto riportato nella risposta precedente. La natura di queste reti le rende analogicamente beni ad appartenenza necessaria. Si esce davvero da ogni concezione volontaristica del demanio, facendo nostra la lezione di M. S. Giannini.

E’ noto che fra i beni pubblici che scandalosamente vengono dati in concessione a fronte di un corrispettivo economico (canone) irrisorio per la collettività, vi sono le sorgenti (il business delle acque minerali) e le cave (il business degli inerti). Di queste seconde non si fa alcun cenno: dove rientrano?

Le cave e le sorgenti producono utilità che vanno governate come beni comuni. Di nuovo, siamo all’ABC ermeneutico.

Che fine fanno con la riforma i piani paesaggistici che siano già stati approvati dalle regioni?

Il ddl riguarda il codice civile, inserisce principi compatibili con i piani paesaggistici e anzi, a fortiori, è volto ad aiutare l’interpretazione del diritto privato regionale.

E’ davvero necessario introdurre nel nostro ordinamento un concetto che non ci è proprio, ma è del diritto anglosassone, come quello dei beni comuni (commons) ? Abbiamo già il demanio, il patrimonio, gli usi civici… non si potrebbe agire sugli istituti che fanno già parte del nostro ordinamento? Magari modificando l’articolo 832 del codice civile, restringendo il diritto del proprietario di godere della cosa, assicurandone la funzione sociale e legando la mancata osservanza di questo obbligo all’estinzione del diritto di proprietà e alla relativa acquisizione della cosa, da parte del Comune in cui la cosa si trova, per destinarla a fini sociali…

I beni comuni NON sono demanio o patrimonio destinato a usi civici. Quelle categorie sono tutte stataliste, figlie di differenti rapporti di forza fra pubblico e privato. Difenderle è reazionario, proprio come lo è parlare di Patria in senso nazionalistico. I beni comuni possono essere anche in titolarità privata, occorrerebbe tenerne conto.

Ulteriori perplessità le ricaviamo a riguardo della formula della legge delega, che, così com’è, oltretutto, ci pare lasci ampi spazi di manovra ed interpretativi. Meglio sarebbe stata una proposta di legge con un articolato già prefissato ed attuativo della riforma, certamente più faticoso ed impegnativo ma, forse, essenziale per evitare rinvii e vuoti.

I codici civili si riformano – in tutta la tradizione giuridica occidentale – attraverso leggi delega. Si tratta di operazioni tecniche che richiedono un’elevata cultura giuridica. Il Ministero di Giustizia, una volta delegato, incarica una commissione tecnica di giuristi che attua i principi che il Parlamento, non il Governo, gli attribuisce.
Se la Commissione – cioè il Governo – vìola lo spirito della delega, è poi la Corte Costituzionale che interviene, a fronte di un conflitto di attribuzione. Va inoltre considerata come una risorsa, non come uno svantaggio, il fatto che la proposta recuperi la ultradecennale storia del ddl Rodotà.