Alla ricerca di una vera cultura del territorio

Una circoscritta analisi della Proposta di legge Morassut 113/2018.

Gruppo Territorio Ambiente del IX Municipio di Roma, a cura dell’arch. Claudio Canestrari, coordinatore.

L’impianto logico della proposta

Dichiaratamente limitata agli strumenti di rigenerazione urbana, perequazione, compensazione e incentivazioni urbanistiche, da adottare in attesa di una non precisata “normativa quadro in materia di governo del territorio“, la proposta assume alcuni argomenti a sostegno delle finalità e dell’articolato normativo, in parte legati a problemi reali sullo stato della pianificazione urbanistica in Italia, in parte derivati da interpretazioni prive di fondamento o a forzature di carattere ideologico, ricorrendo spesso a semplificazioni assai riduttive in cui si finisce per alterare od omettere taluni passaggi fondamentali della storia urbanistica del Paese, per arrivare a sostenere tesi precostituite.

Attraverso un percorso non proprio lineare si vuole arrivare a due tesi fondamentali:

  • attribuire tutti i problemi attuali al modello “rigidamente prescrittivo” del piano tradizionale. Ma non è così.
  • esaltare la necessità di snellire e velocizzare l’attività edilizia come panacea di tutti i problemi, ma senza tenere conto delle ricadute sull’assetto generale del territorio determinato da interventi episodici ed estemporanei, né della qualità degli insediamenti, fondamentale per ogni sistema organico.

Si approda a una visione acritica e provinciale del territorio, ormai superata, anche in termini edilizi a fronte dell’attuale e tendenziale ciclo economico e del mutato scenario del mercato edilizio.
In generale tutta l’impostazione sconta l’assenza di una cultura della pianificazione e di un approccio adeguato alla complessità dei sistemi urbani in particolare (si pensi alle aree metropolitane e alle interdipendenze settoriali), dove la qualità degli insediamenti è anche un fondamentale fattore per il rilancio dell’economia italiana a condizione che “le politiche del territorio non siano più concepite come questioni locali [o settoriali] ma che assumano la rilevanza di una grande politica nazionale, di lungo periodo e attenta agli equilibri territoriali“. (G. Santilli, Sole 24ore).

A) I dati che emergono dalla Relazione

  1. Motivazioni alla base della proposta – problemi reali:

a) il governo del territorio ha progressivamente perduto solide basi legislative;
b) l’assenza di una riforma organica di livello nazionale;
c) le Regioni e la riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione.

Per quanto riguarda la “perdita delle basi legislative”
La ricostruzione è inesatta e in parte deviante.
La “perdita delle basi legislative” non è riconducibile solo a problemi interpretativi.
Il governo del territorio ha perduto “solide basi legislative” a partire dagli anni ’90, per il progressivo ricorso a forme di intervento straordinario e/o derogatorio con l’introduzione di profili giuridici (c.d. diritti edificatori, strumenti perequativi, premialità) improvvisati, privi di solide basi di diritto, di spessore e contenuti non paragonabile con la produzione della legge 1150/42 e con le successive fino alla 457/78, che invece vengono criticate, specialmente la legge del 1942.
(Si ricordi ad esempio il dibattito culturale sulla legge 865 nel 1971, o ancora l’accusa di “comunismo” alla legge 167/62 e ai primi Piani di Zona di Roma, nella fattispecie Spinaceto, e l’ironica risposta di Bruno Zevi alla cultura conservatrice del tempo).
Qui l’identificazione del diritto di proprietà con il diritto di edificare ha fatto perdere di significato a tutta l’attività di pianificazione, sostituita da strumenti di dubbia legittimità e di cui è stato fatto un uso spregiudicato, in particolare con il Decreto Sviluppo.

Grave ignorare ogni riferimento ai passaggi “storici” che hanno destrutturato il sia pur debole ordinamento urbanistico: il D.L. 106/11 dall’art. 3, comma 1 (diritti edificatori) all’art.5 (cessione di cubatura), alle premialità del comma 9, le semplificazioni (comma 1), i permessi in deroga agli strumenti urbanistici (comma 13) all’uso spregiudicato dell’accordo di programma; a cui si aggiungono le politiche regionali sulla Rigenerazione Urbana (nel Lazio la n°7 del 18 luglio 2017) dove sono previste, tutta una serie di misure incentrate su premialità diffuse e cambi di destinazione d’uso, che travisano il significato di “rigenerazione urbana”, ormai molto lontano dalla riqualificazione urbana (Nota 1).

Altro che incertezze di competenze e attribuzioni: si è trattato di scelte politiche precise di cui le città stanno pagando prezzi enormi.

Per quanto riguarda il ruolo delle Regioni

La “spinta” delle Regioni dopo l’art. 117 COST (legislazione concorrente, senza precisare le attribuzioni in modo esauriente) e l’art. 118 (trasferimento delle competenze fino al limite della secessione politica) non poteva che essere “centrifuga”; ogni Regione ha dato la sua interpretazione “autonomista” a seconda della situazione, cultura, esperienza, e convenienza territoriali diverse, incoraggiate dalla rinuncia dello Stato ad affrontare i nodi fondamentali almeno attraverso una norma generale di indirizzo sul consumo di suolo, il rapporto con la pianificazione ambientale, lo ius aedificandi e la distinzione tra procedure ordinarie e straordinarie, con una strumentazione operativa snella.

2. Piani e di programmi complessi

Si dichiara:
“Negli ultimi decenni la legislazione italiana, senza intervenire direttamente sulla legge fondamentale, ha favorito l’adozione di piani e di programmi complessi e integrati che, pur rappresentando significative novità operative recepite in diverse leggi regionali, hanno reso ulteriormente articolata l’intera materia che ormai necessita, in tutta evidenza, di essere ricondotta ragionevolmente in un quadro ordinario, consentendo alle amministrazioni locali – in particolare ai comuni – di operare in coerenza piena con il principio costituzionale di buon andamento dell’amministrazione”.

Anche questo è solo parzialmente vero.
Il mancato intervento sulla legge fondamentale sicuramente è una concausa, ma i programmi complessi, che nascono dall’esigenza di progettare specifici interventi attraverso la partnership pubblico privato, da un lato hanno sostituito qualunque forma di pianificazione della città, dall’altro si sono sviluppati ben oltre le loro finalità originari.
La filosofia del “pianificar facendo, dell’urbanistica per progetti, il Modello Roma”, sono i fattori che hanno impresso all’urbanistica la spinta derogatoria e plasmato la strumentazione operativa alla nuova filosofia.
I Programmi integrati (art.16 legge 179/92), erano nati con l’intento di aggregare “soggetti diversi pubblici e privati”, ma senza sopprimere l’interesse e la regia pubblica degli interventi che pur puntuali dovevano far parte di un quadro di insieme (vedi sentenza della Corte Cost.).
Col tempo questa impostazione si è ribaltata.
Con la Legge 4 dicembre 1993, n. 493, oltre alla proposta unitaria, al concorso di risorse pubbliche e private, proposti al comune da soggetti pubblici e privati, con le priorità stabilite dal Comune sulla base di criteri oggettivi per l’individuazione degli interventi, è stato introdotto (art.11, comma 4) il ricorso all’accordo di programma ai sensi dell’articolo 27 della legge 8 giugno 1990, n. 142.

Non basta; nella pratica, dilatando anche il senso della legge 493/93, venivano individuate “priorità” a pelle di leopardo, e il Piano regolatore generale veniva così ridotto ad una sommatoria di interventi episodici, in base alle proposte dei privati secondo convenienze private.
La spinta disgregatrice dalla produzione legislativa in deroga ha consentito in via breve di bypassare “la fatica” di elaborare una politica del territorio minimamente credibile.

3. Scopo generale della proposta (pag.2 Relazione)

Si dichiara
“Aprire uno scenario nuovo attraverso il quale offrire alle innovazioni introdotte nel tempo a livello nazionale e regionale un’adeguata copertura legislativa nazionale”.
Si intende quindi fornire una copertura acritica di tutta la produzione legislativa prodotta, senza alcuna distinzione (ma non aveva parlato di insidiosi squilibri in virtù dei diversi indirizzi assunti dalle regioni?), ribaltando quanto evidenziato nei nodi problematici richiamati.
Non si può quindi proprio parlare di “scenario nuovo” ma di una mera trascrizione notarile della deregolamentazione fin qui seguita.

B) Articolato di legge

ART. 1. (Finalità).
Nelle more dell’adozione di una normativa quadro in materia di governo del territorio, la presente legge, nel rispetto dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione:

  • detta principi fondamentali
  • che rivestono carattere di particolare importanza e urgenza
  • al fine di garantire l’efficacia delle leggi regionali in materia di governo del territorio
  • e la piena e completa applicazione degli istituti di perequazione, di compensazione e di incentivazioni urbanistiche.

La sostanza sembra essere solo garantire “la piena e completa applicazione degli istituti di perequazione, di compensazione e di incentivazioni urbanistiche”.
Ma se il governo del territorio dovrà effettivamente orientare la pianificazione regionale, pregiudicarne l’efficacia con uno strumento che “detta principi fondamentali”, assunto “nelle more”, limitato sostanzialmente solo a specifici argomenti, significa inevitabilmente rinunciare a qualunque forma di indirizzo generale e unitario, in difformità al dettato costituzionale.
A meno che non si intenda surrettiziamente affermare che la futuribile norma quadro non dovrà che conformarsi a priori alla normativa “nelle more”, parziale e incompleta; infatti, nemmeno un accenno all’indirizzo che dovrebbe assumere la futura normativa quadro.

Tantomeno si accenna ad un impegno legislativo temporale per produrre la normativa quadro: unica certezza il testo nelle “more”, destinato, con ogni probabilità ad una durata sine die delle disposizioni “temporanee”.
L’unico vero obiettivo è fornire gli strumenti operativi (perequazione, compensazione, premialità) per garantire la diffusione edilizia (incontrollata?) senza una logica di piano, reiterando i vecchi soliti strumenti perequativi (oggi superati, vedi in seguito).
Garantire l’efficacia delle leggi regionali“: lo Stato che ci sta a fare (art.118 Titolo V), ma non è materia concorrente?
Nulla si dice sui criteri di dimensionamento del Piano generale mentre il consumo di suolo, che dovrebbe rappresentare una scelta fondamentale, è solo vagamente accennato
nell’art. 2.

ART. 2. (Strumenti di pianificazione locale)
I contenuti dell’articolo sono descritti nella relazione, mischiando argomenti diversi.
Si dichiara:
Necessità di superare lo strumento centrale del piano regolatore generale (PRG) previsto dalla legge n. 1150 del 1942., …. raccogliendo quanto già sperimentato e legiferato in molte regioni, …. a fronte della velocità delle esigenze di trasformazione urbana e territoriale, … e della necessità di trasformare, riqualificare e ristrutturare i tessuti edilizi esistenti anziché ampliare all’infinito i perimetri urbani consumando ulteriore suolo, … poiché il modello rigidamente prescrittivo del classico PRG si è rivelato non più adatto ad affrontare e a governare tali novità.

1) Il superamento del piano regolatore generale della legge n. 1150/42
Premesso che il superamento della legge del 1942 non comporta necessariamente la rinuncia alla “centralità” del piano comunale – semmai la questione fondamentale riguarda le procedure – si dichiara che la proposta intende affrontare “il cuore della riforma urbanistica nazionale” semplicemente con la raccolta della produzione regionale in materia, senza specificare la natura dei provvedimenti adottati da ogni singola regione assunti come riferimento, se trattasi di normativa strettamente urbanistica a carattere strettamente operativo o di più ampi provvedimenti di governo del territorio.
Si omette in particolare la fondamentale questione circa il fatto che gli orientamenti delle regioni in materia di governo del territorio sono assai diversificati; non vengono esplicitamente dichiarati quali sono gli orientamenti assunti (sembrerebbe che il modello di riferimento sia quello della recente legge urbanistica dell’Emilia Romagna).

2) La funzione del piano regolatore nel tempo
Il piano regolatore della legge di 1942 e successive modificazioni e integrazioni viene rappresentato in modo assi riduttivo: in realtà il ruolo dello strumento comunale generale non si limita, come erroneamente affermato ad “indirizzare la crescita e l’espansione urbana nel territorio agricolo” per regolare i “diritti edificatori privati” oltre alle aree a destinazione pubblica e i vincoli, ma anche, accanto alle esigenze quantitative, strutturare l’assetto futuro del territorio in un disegno di insieme, armonico ed equilibrato a partire da un’idea di città che ne garantisca il funzionamento complessivo e la forma che deve assumere la città futura in termini qualitativi e di godimento delle sue prerogative (la Forma Urbis) (Nota 2).

Si tratta di individuare un disegno per unificare la città intorno a dei valori, in primo luogo la qualità urbana e la vivibilità, non una semplicistica sommatoria di volumetrie pubbliche o private finalizzate ad operazioni finanziarie.
Anche in termini di mercato, “…. le funzioni tradizionali del piano regolatore erano di guidare l’espansione edilizia sul piano regolativo (non semplicemente assicurare i diritti edificatori! n.d.r.), garantendo che le nuove parti insediative fossero dotate di un adeguato livello di servizi pubblici, e definire e accompagnare la realizzazione delle armature urbane, infrastrutture e grandi servizi, sul piano erogativo come sostegno all’efficienza e all’efficienza e alla produttività del sistema degli insediamenti. (Ombuen, Quarto rapporto sulle città).
I sistemi urbani sono una componente fondamentale del PIL a condizione che qualità e quantità degli insediamenti ne assicurino l’efficienza (non solo compravendita del mattone).

3) I diritti edificatori
A confutazione di quanto affermato, il Piano regolatore, comunque inteso, non ha mai determinato diritti perpetui, in quanto la presunzione di esistenza dei c.d. diritti edificatori è stata smentita da varie fonti in particolare dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 6656/2012, secondo la quale non esistono “diritti edificatori” né “vocazioni edificatorie” di suoli non ancora edificati. L’amministrazione comunale può rivedere le destinazioni urbanistiche vigenti senza dover necessariamente indennizzare le aree di cui intende cambiare il regime (Nota 3). Ma sia a livello comunale sia a livello regionale è prevalsa una interpretazione e una pratica esattamente capovolta.
Si è solo diffusa negli apparati amministrativi e politici la convinzione, di fatto ma non di diritto, che il proprietario sia titolare non solo della proprietà di quel suolo (diritto reale), ma anche di un presunto “diritto edificatorio” (accessorio), conferito dalle previsioni di piano, previsioni di cui viceversa è titolare il Comune nell’esercizio della sua attività finalizzata al soddisfacimento dell’interesse pubblico.

Tale pratica non trova riscontro nel diritto italiano: “compensazioni” e “perequazioni” possono essere suggerite da opportunità politiche, ma non sono affatto la conseguenza obbligata di norme di legge a tutela della proprietà privata (Cerulli Irelli).
Quindi, con la proposta presentata, ancora una volta si tenta di imporre di fatto, ma non di diritto, con affermazione pretestuose viziate da motivazioni ideologiche, l’esistenza dei c.d. diritti edificatori.
In questo modo si tenta di conferire al piano regolatore la funzione di notaio delle decisioni convenzionali, con una strumentazione operativa ridotta a sommatoria di interventi non subordinati a una valutazione di tipo complessivo e armonico del medesimo armonico del territorio (C.d.S, sentenza citata).

4) La modalità operativa per l’acquisizione delle aree a prezzo di mercato
Si afferma che “i costi enormi determinati da numerose sentenze della giustizia amministrativa e della giurisprudenza italiana ed europea, [sono la causa] che ha prodotto per l’acquisizione di tali aree valori quasi di mercato, trasformando di fatto l’esproprio in compravendita”.
L’attuale normativa in materia di espropriazione per pubblica utilità ha effettivamente equiparato l’acquisizione delle aree in compravendita di fatto.
Ma le sentenze della Corte Costituzionale non imponevano che “l’adeguato ristoro” del proprietario (ossia l’indennizzo) dovesse essere equiparato a “valori quasi di mercato”: questa è stata una forzatura maturata nell’ambito dello scontro politico seguito alla sentenza Corte Cost. n°5/82, e la successiva legge n. 359/1992 dove l’indennità è stata pari al valore venale del suolo (poi portata al 60% della media il valore venale del suolo e la rendita dominicale, fino al T.U. 327/01 al valore venale).
Alla decisione, tutta di natura politica, di equiparare l’indennità di esproprio al valore venale, a cui si sono aggiunte le pratiche derogative sono gli elementi che hanno reso artificialmente più alto il valore dei terreni.
I “costi enormi” sono derivati dalle posizioni ambigue della politica, non degli strumenti di pianificazione.
Le sentenze della Corte Costituzionale quindi vanno lette come una indicazione dei nodi irrisolti del sistema giuridico italiano, e come una indicazione, più o meno esplicita, della direzione nella quale il legislatore potrebbe (e dovrebbe) muoversi, se quei nodi volesse veramente sciogliere (ma ad oggi così non é stato), anche alla luce dell’art.42 della Costituzione (funzione sociale della proprietà).

5) Il superamento del modello rigidamente prescrittivo del PRG classico
Si afferma che i fattori che hanno reso necessario il superamento del PRG sono:

  1. l’integrazione economica e finanziaria tra diverse aree geografiche transnazionali
  2. e la conseguente velocità delle esigenze di trasformazione urbana e territoriale,
  3. la necessità di trasformare, riqualificare e ristrutturare i tessuti edilizi esistenti anziché ampliare all’infinito i perimetri urbani consumando ulteriore suolo.

A cui si aggiunge:

  • lo squilibrio tra città pubblica» e «città privata» che rischia di produrre scompensi nello sviluppo e nel governo del territorio e anche evidenti ingiustizie sociali,
  • la diversa durata temporale tra le destinazioni pubbliche (5 anni) e le destinazioni private (sine die)

Riqualificazione e rigenerazione non sono la stessa cosa (salvo mistificare il significato originario di entrambi i concetti).
Se lo scopo è di “trasformare, riqualificare e ristrutturare i tessuti edilizi esistenti” in termini di riqualificazione senza ampliare i perimetri urbani ed ampliare la cubatura, valga quanto già ampiamente offerto dalla legge 457/78 per i procedimenti di riqualificazione edilizia ed urbanistica senza dovere fare ricorso a procedure di rigenerazione, premialità e strumenti in variante assunti fuori del procedimento ordinario.
Semmai si tratta di ripensare procedure operative più snelle ed efficaci.
Se viceversa si vuole accorpare il concetto di riqualificazione a quello di rigenerazione (secondo alcune pratiche e indirizzi normativi in corso) allora si tratta semplicemente di estendere a tutti i costi le pratiche derogative e far diventare ordinario ciò che nasce in regime straordinario (si vedano gli interventi emergenziali a sostegno dei PRU, PRINT Social housing ecc.). Ancora una volta si vuole conformare i principi alle opportunità economiche secondo logiche peraltro ormai superate.
La finanziarizzazione dell’attività edilizia e l’attuale andamento del ciclo economico vanno ben oltre il segmento di domanda transnazionale.
L’esigenza di velocizzare la produzione edilizia in assenza di indirizzi di programmazione economica e pianificazione territoriale è stato già sperimentato negli anni ’80 (vedi la legge n° 1 del 1978). E nemmeno si indicano norme per una ‘industrializzazione’ del sistema utilizzando le tecnologie più avanzate, come ci si aspetterebbe se si cita la questione.
Non si tiene conto della realtà del mercato edilizio e l’andamento dell’attuale ciclo edilizio e finanziario attuale.
Lo squilibrio tra città pubblica e città privata è la conseguenza di una totale assenza di una cultura del territorio poiché “è mancata una legislazione nazionale sulla politica delle città, l’unica posizioni in materia è rimasta quella rappresentata dalla legge 1150/42; in Francia viceversa vi è una politica urbana. (in Italia) Piani delle città, progetto per le periferie, ecc. (interventi settoriali) vanno bene ma non sono legati ad un progetto di città” (Andrea Ferrazzi).

Si veda il caso della Città metropolitana di Roma, dove oltre le roboanti dichiarazione retoriche sul carattere “metropolitano” e i conseguenti finanziamenti.

“Mi sembra che Roma fatichi a trovare un modello città e a proiettarlo nella società per sprigionare energia. Una città come Roma merita coraggio; non si può guardare solo al breve ciclo politico, ma investire a lungo termine … in parte perché manca la visione nel progettare un modello: la pianificazione urbanistica e il lavoro con le imprese, i centri di ricerca, le associazioni. Per invertire la rotta, va rimesso in campo un progetto di città come laboratorio di innovazione democratica …. iniziare per dar vita a una smart city che parta dalla riqualificazione del patrimonio culturale” (Francesca Bria assessore alle Tecnologie e all’innovazione digitale di Barcellona).

5) Il “Modello” proposto (testo dell’art.2)
Il superamento del PRG, attraverso l’introduzione dei tre livelli di pianificazione illustrati all’articolo 2, consente invece di definire in modo flessibile e non conformativo gli indirizzi di pianificazione strutturale del territorio affidando la fase attuativa a un piano operativo con durata pari al mandato del sindaco – cinque anni – e attribuendo così pari durata e opportunità alle destinazioni pubbliche e a quelle di valorizzazione privata

5.1. La disciplina proposta
La proposta fornisce indicazioni alle Regioni per disciplinare gli strumenti della pianificazione comunale o intercomunale, ma nulla prevede per la pianificazione regionale.
Non si fa cenno al Piano Territoriale di Coordinamento regionale (art.5 legge 1150/42), comunque lo si voglia intendere e riformare, alle interdipendenze della pianificazione sovracomunali con i piani settoriali di livello regionale e nazionale, ai rapporti con la pianificazione ambientale regionale, di importanza primaria.
Il territorio regionale viene concepito come un ricettore passivo della sommatoria dei piani comunali e intercomunali, peraltro assoggettati a normativa assai poco conformativa.

5.2. L’articolazione per livelli
L’articolazione del Piano per livelli non è una novità (vedi ad esempio L.R. Lazio n.38/89).
In realtà non si tratta di livelli ma di componenti di cui almeno una, la terza (sistemi insediativi esistenti) sembra essere autonoma rispetto alle precedenti, dalle quali si differenzia non prevedendo efficacia conformativa delle previsioni.
L’articolazione per livelli implica una connessione gerarchica fra i diversi dispositivi: la pianificazione operativa non può che essere subordinata a quella strutturale a carattere strategico e la flessibilità operativa non può spingersi fino a scardinare la strategia generale del territorio che inevitabilmente determinerebbe la prevalenza di iniziative forti e lo squilibrio fra le destinazioni pubbliche e quelle private, anche se nel ciclo economico che si sta avviando la rendita, a fronte della fase di decrescita, si sta interessando anche alle funzioni pubbliche: “L’interpretazione economica contemporanea individua il fondamento della formazione delle rendite urbane nella capacità degli immobili di incorporare nel loro valore
l’accessibilità a beni e valori pubblici (Marshall 1972, 601 ss.]

E pertanto “La ricapitalizzazione dei sistemi urbani svolge un ruolo fondamentale di aggiornamento dei medesimi e di supporto ai valori dei mercati immobiliari, in senso sia espansivo (incremento di valore dello stock) che redistributivo (capacità di generare fenomeni di valorizzazione differenziale attorno agli investimenti pubblici), particolarmente importante nel perdurante calo dei prezzi”. (URBAN)

5.3. La flessibilità del piano e la durata delle conformazioni edificatorie
Il concetto di flessibilità non comporta automaticamente la non conformazione alle previsioni; un modello non conformativo così inteso rappresenta una forzatura finalizzata solo a rafforzare l’effettivo scopo della proposta: liberalizzare le trasformazioni urbanistiche di cui alla seconda componente. Perciò, l’abusato concetto di flessibilità rimane generico e non accompagnato da indicazioni procedurali specifiche e controllabili.
Altra forzatura è legare “la fase attuativa a un piano operativo con durata di cinque anni” da cui scaturirebbe “la pari durata e opportunità alle destinazioni pubbliche e a quelle di valorizzazione privata”.
Ma in realtà la durata si può modificare e aggiornare essendo oggetto di dibattito.
La tematica dell’efficacia temporale delle prescrizioni del piano interseca quella che è l’esigenza tipica di tutti gli atti di pianificazione che, da un lato, garantiscono una stabile organicità degli assetti regolati, dall’altro, la governabilità degli interessi sopravvenuti, che ha determinato eccezioni alla durata a tempo indeterminato del piano generale comunale ex art.11 legge n. 1150/1942, eccezione su cui per lungo tempo la giurisprudenza ha dibattuto.

Tuttavia rientra nella potestà pianificatoria la possibilità di rinnovare nel tempo i vincoli su beni individuati, purché, come ritenuto dalla giurisprudenza amministrativa, risulti analiticamente motivata in relazione alle effettive esigenze urbanistiche” (sentenza n. 575 del 1989).
Ma poiché secondo gli orientamenti recenti, la durata sine del vincolo localizzativo equivalente alla perdita dello ius aedificandi, la Corte ritiene che la reiterazione equivale ad un esproprio e, in quanto tale, deve essere indennizzata, mentre invece, per il Legislatore, è richiesta la prova del danno effettivamente patito per reiterare il vincolo.

5.4. L’efficacia conformativa delle previsioni
Bizzarra l’affermazione (art.2, 5° capoverso) secondo cui le previsioni e i contenuti della componente strutturale della pianificazione non hanno efficacia conformativa della proprietà e degli altri diritti reali e fini edificatori e non determinano alcuna condizione di edificabilità anche ai fini fiscali.
Nessun accenno allo snellimento delle procedure amministrative alla efficienza delle amministrazioni, che hanno, almeno in alcune Regioni, contribuito non poco al fallimento della pianificazione comunale.

6. Le finalità generali del Piano

Salvo un vaghissimo accenno sul consumo di suolo – come si è detto – nessuna finalità generale viene prescritta alle regioni.
Nessun accenno su quelle finalità generali che dovrebbero dettare norme di carattere prescrittivo per tutte le Regioni per assicurare comportamenti di gestione omogenei su tutto il territorio nazionale in quanto di interesse comune, in particolare il quadro di compatibilità ambientale e gli strumenti economici di interazione tra le decisioni concernenti l’assetto del territorio e le politiche ed i piani di settore, integrità fisica, identità culturale, miglioramento qualitativo del sistema insediativo, eliminazione di squilibri sociali, territoriali e di settore, garantire uno sviluppo sostenibile delle Regioni, clima e servizi ecologici minimi da assicurare tutela valorizzazione dei beni ambientali e culturali in quanto di interesse comune ai sensi dell’art.7 della Costituzione.
Nemmeno un riferimento (altro che sintesi delle Regioni!) alla legge regionale del Lazio n° 6 del 2008, che detta norme in materia di sostenibilità energetico ambientale negli strumenti 10della pianificazione territoriale ed urbanistica, interventi di mitigazione degli impatti, riduzione del consumo di nuovo territorio, risparmio idrico, ricorso a fonti energetiche rinnovabili.
I “principi fondamentali” della proposta che si limitano ad alcune vaghe enunciazioni prive di contenuto sostanziale, non assicureranno mai l’esercizio di governo delle trasformazioni fisiche e funzionali del territorio, anche perché le azioni che determinano tali trasformazioni sembrano essere totalmente autonome.

Art. 3, 4, 5 – Perequazione, compensazione e incentivazioni urbanistiche
La disciplina della perequazione, compensazione e incentivazioni urbanistiche è l’unico vero scopo della proposta, garantito attraverso un disciplina ferrea che ricalca in buona sostanza quanto già introdotto surrettiziamente nell’ordinamento dalle norme nazionali (legge 106) e dalle norme di alcune Regioni (brilla in particolare la legge n.24/17 dell’ Emilia Romagna) (Nota 4).
La perequazione viene estesa anche a previsioni della pianificazione operativa, anche non contigue (per non farsi scappare nulla), in seguito alla presentazione, da parte dei proprietari, di proposte dei piani e dei programmi urbanistici attuativi e prescrittivi, mediante convenzione relativa al piano o al programma urbanistico (art.3),
Una novità è costituita dalla perequazione territoriale (art.4) al fine di attuare interventi di interesse sovracomunale.
Richiamando alla fine “il principio di cui all’articolo 42 della Costituzione che attribuisce funzione sociale alla proprietà” i comuni sono “autorizzati ad ottenere dai proprietari” di terreni edificabili contributi per la dotazione di servizi pubblici maggiori di quelli ordinariamente prescritti, contributi monetari per oneri di urbanizzazione e per realizzazione di opere pubbliche primarie e secondarie anche in misura maggiore (art.5).
Il territorio in vendita dopo la mutazione genetica dell’urbanistica.

Conclusioni

La finanziarizzazione del mercato edilizio, eccesso di offerta legata alla bolla speculativa, assenza di una cultura del territorio, negazione di ogni forma di previsioni a lungo termine, rinuncia a qualunque sistema di indirizzo del mercato, assenza totale di politiche di riordino territoriale, mercato senza nessun sistema di regolazione che vada oltre alla cattura del consenso a breve termine, rinuncia a qualunque progettualità e idea propositiva dello sviluppo urbano che vada oltre alla promozione indifferenziata del costruito (siamo molto vicini ai Programmi di Fabbricazione post bellici), hanno condizionato il mercato immobiliare e promosso gli squilibri sociali e funzionali della città.
In questo contesto, l’impulso all’espansione edilizia che la legge promuove (salvo un assai vago accenno al contenimento del consumo di suolo) risulta assolutamente superato dalle attuali condizioni di mercato e dell’andamento del ciclo economico.
Assicurare l’esistenza perpetua dello scambio immobiliare senza alcuna visione di insieme e prospettive di sviluppo qualitativo della città, significa la rinuncia a governare.
Una legge “di principi” affidata quasi esclusivamente a forme perequative a fronte della dimostrata scarsa utilizzabilità economica e il forte condizionamento del mercato, con la rinuncia a qualsiasi forma di controllo urbanistico, costituisce l’esatto opposto delle necessità sociali e territoriali del Paese.
Costringere le Regioni ad adottare schemi di comportamento così vincolanti secondo logiche edilizie, magari non rispondenti alle necessità degli specifici territori, oltre all’impianto provinciale sembra rispondere a logiche sostanzialmente ideologiche a beneficio di settori produttivi peraltro non maggioritari, a fronte della necessità di indirizzare la produzione edilizia al rinnovo, alla riqualificazione edilizia ed urbanistica, adeguamento energetico, architettonico, ossia spingere verso ad un mercato di qualità.
La rinuncia ad ogni logica di pianificazione sta producendo danni irreversibili, in particolare con l’assenza di indirizzi (questi sì, determinanti) in materia di consumo di suolo, fornitura di servizi ecologici divenuti indispensabili, misura di contenimento delle alterazioni climatiche, è particolarmente grave. In buona sostanza, questa proposta di legge cede al privato la programmazione del territorio, riducendo il decisore pubblico a ufficiale notarile, nel migliore dei casi.
Ridurre tutto alla rigidezza della strumentazione tradizionale è del tutto fuorviante e significa rinunciare ad una riforma sul governo del territorio incentrato sulle reali necessità sociali e territoriali.

ANCORA UN’ANNOTAZIONE

Il contesto economico e la nuova offerta immobiliare del DDL

La finanziarizzazione del mercato edilizio
A partire dal 2008 nella società e nell’economia è in corso una nuova grande trasformazione.
Con lo sviluppo dell’economia globale, a fronte di una riduzione del peso degli Stati nazionali si assiste a un incremento del ruolo dei flussi finanziari, cresciuti nell’ultimo ventennio a un ritmo molto superiore rispetto all’incremento del prodotto globale lordo.
I grandi operatori finanziari internazionali impongono le condizioni di investimento per grandi partite immobiliari, che modificano il costo dell’indebitamento e le condizioni di sostenibilità per l’acquisto della casa da parte delle famiglie.
Nel settore immobiliare il ruolo delle famiglie componente principale del mercato è in calo sia nel settore dell’acquisto sia in quello dell’affitto.
Di conseguenza, assieme all’eccesso d’offerta dovuto alla bolla speculativa d’inizio secolo, oggi un’imposizione fiscale prima pressoché assente (con una tassazione immobiliare di caratteristiche e dimensioni europee, lmu e Tasi), l’aumento del peso dei soggetti finanziari e la debolezza delle famiglie, malgrado le favorevoli condizioni di finanziamento del 2015, le quotazioni immobiliari continuano a calare (i prezzi nominali sono calati di circa il 35% dall’inizio della crisi e del 26% dal 2011) [Istat 2018]
Il calo della produzione di nuovi alloggi, scesi a circa 10.000 l’anno a fronte del picco di 55.000 del 2005 (fonte lstat), è dovuto infatti alla difficoltà di assorbire l’eccesso di offerta e all’accresciuta tassazione che è venuta a gravare sul settore immobiliare. Questo eccesso dell’offerta, come dovrebbe essere noto, è dovuto anche se non soprattutto ad una sorta di ‘schema ‘Ponzi’, per cui i costruttori contraggono nuovi mutui per ripagare almeno gli interessi su quelli in precedenza assunti, indipendentemente dalla vendibilità di abitazioni e uffici.

Contemporaneamente, i governi succedutisi hanno progressivamente ridotto i trasferimenti ai comuni, in parte sostituendoli con il trasferimento di beni immobili statali dismessi (il cosiddetto federalismo demaniale), in parte con veri e propri tagli, da cui è seguito un grave calo degli investimenti fissi lordi del settore pubblico (fonte Banca d’Italia).
La principale voce calante nella composizione del nostro Pil è quella relativa agli investimenti fissi lordi, e in particolare gli investimenti pubblici in capitale fisso territoriale (fonte lstat), calati di circa il 43 % dall’inizio della crisi.
Esattamente il contrario di quanto suggerirebbe una politica economica con funzione anticiclica di ispirazione keynesiana.
Al definanziamento dei canali ordinari ha corrisposto negli ultimi anni una ripresa degli interventi straordinari sulle città, con la messa in campo di significative risorse dedicate a progetti e programmi di rigenerazione urbana distribuiti attraverso i canali della programmazione comunitaria (Pon metro, Aree interne), delle riprogrammazioni straordinarie (i patti tra Stato e città) e dei bandi competitivi (Piano città, Programma periferie). (De Leo e Ombuen 20 l8).
Volume di risorse che non riesce a tradursi in realizzazioni e a produrre la ricapitalizzazione delle dotazioni strutturali dei nostri sistemi urbani (per criticità di sistema come il nuovo Codice degli appalti e l’indebolimento delle strutture tecniche amministrative).
Vi è così il rischio non solo che tale nuovo ciclo di formazione di capitale fisso territoriale non risulti dimensionalmente e qualitativamente adeguato alle domande emergenti nella nuova condizione urbana delle città italiane, ma anche che si abbiano significativi definanziamenti dei programmi in corso.

Gli effetti della crisi sul mercato immobiliare
Il modello insediativo offerto dagli strumenti urbanistici tradizionali con il controllo dell’espansione urbana accompagnato da un adeguato livello di servizi pubblici e la realizzazione delle armature urbane, infrastrutture e grandi servizi, come sostegno all’efficienza e all’efficienza e alla produttività del sistema degli insediamenti, oggi è venuto in crisi con un calo a partire dal 2008 dell’82% delle nuove costruzioni (fonte Istat) e del 50% degli investimenti comunali in opere pubbliche (fonte Ifel), e ciò nonostante il surricordato ‘schema Ponzi’.
In particolare, è entrata in crisi l’utilizzabilità degli strumenti perequativi, che in carenza di adeguati investimenti pubblici, sono stati utilizzati ampiamente nell’ultimo ventennio per reperire risorse dall’intervento privato per la realizzazione degli interventi d’interesse pubblico.

L’andamento del mercato
L’ingresso nell’euro è andato a sostenere, fino al 2006, la formazione delle rendite assolute e l’espansione urbana diffusa, producendo un più elevato consumo di suolo e l’incorporamento di ulteriore debito pubblico in un nuovo patrimonio insediativo prodotto senza adeguata dotazione di urbanizzazioni (Ombuen) Si stima, inoltre, che nei prossimi cinque anni andranno complessivamente in vendita fra 400.000 e 500.000 posizioni provenienti da pignoramenti con un aumento dell’offerta di circa il 20% alle dimensioni correnti del mercato (Sole 24ore 25 gennaio 2018).
Gli esiti di tale offerta aggiuntiva possono produrre rischi di aggravamento del mercato (per disinvestimento che si realizza rimborsando il debito pregresso con la liquidità disponibile).
La crisi ci consegna sistemi insediativi dove vengono privilegiati i flussi finanziari, indeboliti i fattori qualitativi caratterizzati da fenomeni territoriali di diffusione, dispersione, diramazione (oggetto di dibattito).
Realizzare un incremento del patrimonio edilizio senza realizzare contestualmente le dovute urbanizzazioni e servizi pubblici, oltre a ledere i diritti dei residenti, vuol dire scaricare sul futuro un deficit di dotazioni e di sottocapitalizzazione territoriale che produrrà comunque costi, sia come opere pubbliche da realizzare sia come inefficienza economica dei contesti.

Gli squilibri territoriali e sociali
Le zone centrali delle città dove si concentra la crescita di valori immobiliari vedono concentrarsi gli acquisti da parte della frazione più abbiente degli acquirenti, che, sempre più spesso comprano per investimento e poi affittano approfittando del crescente mercato degli usi temporanei.
Invece, le corone esterne delle aree metropolizzate, in particolare laddove i dati demografici, il tasso di occupazione e la scarsa dotazione infrastrutturale non danno sufficiente sostegno alla domanda, vivono più gravi cali dei valori immobiliari e fenomeni di periferizzazione economica e sociale.
Aumentano così i tanti e diversi dualismi e divergenze territoriali già presenti in Italia: nella dialettica sempre più complessa fra centro e periferia, fra Nord e Sud, fra coste e aree interne, fra territori metropolizzati e zone di più rado insediamento.
Negli ultimi sei anni, grazie all’ombrello di copertura finanziaria della Bee, è stato possibile avviare il risanamento della confusa e problematica situazione economica italiana , a cui non ha però corrisposto una politica di riordino territoriale in grado di avviare il recupero dei rilevanti squilibri presenti e la formazione di nuove politiche urbane, né a livello nazionale né nella programmazione regionale comunitaria, che pure ha il tema della coesione territoriale come asse centrale di azione.
Gli indirizzi futuri La traccia attorno a cui avviare la costruzione di future politiche di coesione territoriale dovrà sperimentare metodi innovativi di coordinamento tra rigenerazione urbana e governo delle dinamiche finanziarie, che saranno possibili solo dotando il governo urbano di adeguate scale di dominio fisico e di collimazione dei flussi di risorse con i contesti.
Sempre più emerge come il mercato non sia una condizione naturale, ma che esso sia capace di produrre utilità sociali solo all’interno di efficaci sistemi di regolazione, presidiati da istituzioni indipendenti e non infiltrabili, non subalterne al problema della cattura del consenso a breve termine.
La crisi (non può essere superata con espedienti immobiliari a breve termine) poiché richiede un generale ripensamento dei rapporti tra ciclo delle trasformazioni insediative, produzione del valore, generazione dei beni comuni, reperimento delle risorse per la produzione dei beni pubblici.

NOTE:

  1. Completamente assente dal ragionamento l’insieme delle modifiche alla disciplina vigente a partire dal comma 3 dell’art. 5 della legge 12 luglio 2011 n. 106, che ha introdotto nell’art. 2643 c.c. il comma n. 2-bis, per effetto del quale, sono “soggetti a trascrizione nei registri immobiliari i contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano diritti edificatori comunque denominati, previsti da norme statali o regionali ovvero da strumenti di pianificazione territoriale”, dall’art. 5 che introduce:
    a. il silenzio assenso per il rilascio del permesso di costruire (comma 1);
    b. estende la segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) agli interventi edilizi precedentemente compiuti con denuncia di inizio attività (comma 1/b);
    c. per agevolare il trasferimento dei diritti immobiliari, viene introdotto all’articolo 31 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, il comma 49-bis, per svincolare dal prezzo massimo di cessione delle singole unità abitative in regime 167/62
    (comma 3 bis);
    d. viene tipizzata la cessione di cubatura (comma 1/c), precedentemente atipica;
    Inoltre per “incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente” con il comma 9 dell’art. 5 viene riconosciuta:
  • una volumetria aggiuntiva sulla preesistente come misura premiale (comma 9/a);
  • la delocalizzazione delle relative volumetrie in area o aree diverse (comma 9/b);
  • modifiche di destinazione d’uso, purché “compatibili o complementari” (comma 9/c).
    In aggiunta a ciò:
  • è ammesso il rilascio del permesso in deroga agli strumenti urbanistici (ex art. 14 DPR 380/11 n. 380) anche per il mutamento delle destinazioni d’uso, purché si tratti di “destinazioni tra loro compatibili o complementari”(comma 13);
  • inoltre i piani attuativi, conformi allo strumento urbanistico generale vigente, sono approvati dalla giunta comunale (comma 13/b).
    Le leggi regionali sulla Rigenerazione Urbana (nel Lazio la n°7 del 18 luglio 2017) dove sono previste, tutta una serie di misure incentrate su premialità diffuse e cambi di destinazione d’uso, che travisano il significato di “rigenerazione urbana”, ormai molto lontano dalla riqualificazione urbana (vedi INU Lazio).
    Nel quadro normativo deregolamentato sempre più esteso ricorso a strumenti di concertazione quali l’Accordo di Programma, attraverso il quale si può procedere ad interventi in deroga del PRG, con procedure semplificate e prive delle necessarie verifiche di compatibilità funzionale e ambientale.
  • 2. Quello che noi abbiamo avviato è unificare la città intorno a nuovi valori. Non c’è dunque nessun contrasto, se non artificioso e bassamente strumentale tra Via dei Fori Imperiali e la prima e la seconda periferia romana. Al contrario si può partire da Via dei Fori Imperiali, come si sta facendo, per andare al Forte Prenestino, negli altri luoghi storici della città e concorrere al programma di difesa dei monumenti, ma soprattutto quello che accade e che vogliamo che accada è che non solo il tempo di percorrenza, ma il tempo mentale e il tempo culturale si accorci tra Via dei Fori Imperiali e la periferia, tra la periferia e Via dei Fori Imperiali” (Luigi Petroselli, Roma 1982).
  • 3. “l’urbanistica e il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, complessivo e armonico del
    medesimo complessivo e armonico del medesimo; uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli, non in astratto, ma in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi, sia dei valori ambientali e paesaggistici, delle esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, delle esigenze economico-sociali della comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del modello di sviluppo che s’intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione de futuro sulla propria stessa essenza, svolta per autorappresentazione ed autodeterminazione dalla comunità medesima” Stralcio Sentenza C.D.S. 6656/2012.
  • 4. Disciplina regionale sulla tutela e l’uso del territorio della Regione Emilia-Romagna 21 dicembre 2017, n. 24: “Dietro gli slogan del risparmio di suolo e della rigenerazione urbana, della semplificazione e della negoziazione, si nasconde il pericolo di un’«eclissi della pianificazione». In particolare, se il DdL si trasformerà in legge: il piano urbanistico sarà sostituito da “accordi operativi”; il consumo di suolo sarà garantito per un altro 3%, pari a centinaia di chilometri quadrati di nuova edificazione; il tessuto delle città storiche potrà essere interessato da demolizioni; la semplificazione riguarderà solo i grandi operatori generando un doppio regime normativo”.
  • Tomaso Montanari, Contributi di Ilaria Agostini, Piergiovanni Alleva, Paolo Berdini, Piero Bevilacqua, Paola Bonora, Sergio Caserta, Pier Luigi Cervellati, Paolo Dignatici, Anna Marina Foschi, Giovanni Losavio, Anna Marson, Cristina Quintavalla, Ezio Righi, Piergiorgio Rocchi, Edoardo Salzano.