Il consumo di suolo costa all’Italia 2 miliardi l’anno

di Giuliano Giulianini.

L’ISPRA sollecita l’approvazione di una legge contro il consumo di territorio a causa di nuove edificazioni. L’ONU e l’UE impongono il consumo zero entro i prossimi anni, ma le statistiche dicono che neanche la crisi economica ha fermato l’avanzata del cemento.

Il consumo di suolo è una delle emergenze legate all’ambiente più importanti, e al contempo più sottaciute, della società moderna. Il sottile strato di suolo fertile, vitale tanto per l’agricoltura quanto per la biodiversità della natura, una volta coperto di asfalto o cemento perde per sempre le sue ricchezze di nutrienti e le funzioni naturali. Eppure ogni secondo in Italia si perdono due metri quadrati di suolo naturale: un conto alla rovescia che non è stato fermato neanche dalla crisi economica e che, anzi, sembra accelerare quando l’economia si riprende. Secondo i dati pubblicati su un recente rapporto del Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente, il 7% dell’intero suolo italiano, ovvero un’area vasta come la Lombardia, è ormai irrimediabilmente perduto dal punto di vista della natura. L’Europa vuole che il consumo di suolo si arresti del tutto entro il 2050. Per farlo ci vogliono leggi nuove e incentivi alle imprese per smettere di coprire il suolo e costruire su superfici già cementificate. In effetti in Parlamento ci sono diversi disegni di legge sul tema, ma l’iter sembra fermo, nonostante tutti i partiti, e anche il Ministro dell’Ambiente, si dicano interessati a varare una normativa definitiva. “Ecosistema”, la rubrica radiofonica di Earth Day Italia trasmessa da Radio Vaticana, ha approfondito l’argomento con Michele Munafò, rappresentante dell’ISPRA.

Secondo i rapporti di questi ultimi anni il consumo di suolo rallenta, anche non si ferma. È una buona o una cattiva notizia?

Intanto dobbiamo dire che ha rallentato fino a due anni fa. Dall’anno scorso il consumo di suolo si è stabilizzato ma comunque non si è fermato. Anzi, è molto lontano dall’essersi fermato; perché ogni anno noi copriamo più di 50 chilometri quadrati del nostro territorio con cemento, asfalto, edifici, strade e altri elementi che ci fanno perdere questa risorsa ambientale, importantissima e limitata, che è il suolo. Noi dovremmo arrivare a zero consumo di suolo ogni anno. Da qui al 2050 dovremmo assolutamente limitare questo spreco (perché di spreco si tratta); infatti di suolo abbiamo già consumato tantissimo.

Questo “tantissimo” suolo consumato è stato anche quantificato nel 7% del territorio nazionale: facendo un’analogia, è equivalente al territorio della Lombardia. Questo sembrerebbe voler dire che il 93% dell’Italia è ancora fertile e naturale. Non sembra una cosa tanto spaventosa.

Non è esattamente così. Questo 7% (7,6% per l’esattezza), 23 mila chilometri quadrati, riguardano il suolo direttamente coperto da cemento e asfalto. Ma l’impatto del consumo di suolo non si ferma all’infrastruttura o all’edificio di nuova costruzione. Va ben oltre. Basti pensare all’impatto che queste trasformazioni hanno sull’ecosistema, sulla biodiversità, sulla capacità del suolo di darci, “banalmente” il cibo: la produzione alimentare attraverso la produzione agricola. Tutto questo ha un impatto importantissimo sul territorio; che per l’appunto non si limita soltanto all’area cosiddetta “di sedime” dove il suolo viene direttamente impermeabilizzato o cementificato, ma va ben oltre e addirittura arriva a coprire percentuali molto più alte nel territorio.
Per dare comunque un’idea di quanto questo 7,6% sia alto, basti pensare che è quasi il doppio della media europea. L’Italia ha un territorio molto fragile, soggetto a fenomeni di pericolosità idraulica: alluvioni, frane, terremoti, la presenza di vulcani. Insomma c’è un territorio sicuramente diverso da quello degli altri paesi europei; nonostante questo abbiamo costruito molto di più e continuiamo a farlo. Un altro elemento che ci deve far pensare è che il nostro territorio è fatto per un terzo di aree montane; per un altro 40% è fatto di zone collinari e alto collinari. Quindi il consumo di suolo in realtà si concentra su una piccola parte del territorio: quella più importante, di pianura, la più fertile; e le percentuali ovviamente sono molto più alte. Cioè, questo 7% non si distribuisce dovunque: le montagne non hanno problemi di consumo di suolo
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Non si distribuisce equamente neanche in tutte le regioni. Quali sono le zone con più concentrazione di cemento?

Sicuramente il nord è la zona storicamente più toccata dal fenomeno. La Lombardia, ad esempio, ha una percentuale [di consumo di suolo] che sfiora il 13% del territorio, quindi a sua volta quasi il doppio della media italiana, che abbiamo detto essere il doppio della media europea. Anche il Veneto ha percentuali simili. Sono regioni dove, tra l’altro, anche negli ultimi anni il fenomeno tende ad avanzare molto velocemente. In particolare nel solo Veneto abbiamo assistito alla concentrazione di quasi un quinto delle trasformazioni [nazionali] dell’ultimo anno. Quindi si continua a costruire dove si è già costruito molto nel passato; e si continua a costruire in zone importantissime. Prima parlavamo delle pianure, ma basti pensare alla fascia costiera: nella sottile linea che sta vicino al mare, a 300 metri dalla costa, abbiamo una percentuale che sfiora il 25% del suolo consumato. Quindi quasi un quarto di questo territorio importantissimo per ragioni ambientali, ma anche turistiche e paesaggistiche, è ormai perso per sempre.

A che scopo sacrifichiamo questo suolo fertile? Una cosa è costruire un ospedale, altro è costruire un centro commerciale.

Oggi la gran parte del consumo di suolo è dovuto a cantieri di vario tipo. In particolare alle infrastrutture. Spesso, nell’immaginario collettivo, si associa il consumo di suolo alla città, all’edificio; in realtà il 40% del suolo artificiale in Italia è destinato a ospitare infrastrutture di vario tipo: fondamentalmente le grandi strade che solcano il nostro paese, ma anche una rete di infrastrutture minori che complessivamente invadono il territorio, con un reticolo che, tra l’altro, ha una conseguenza importante anche in termini di frammentazione degli habitat: cioè della capacità del territorio di ospitare specie animali, vegetali, e la biodiversità in generale.

Ad esempio le strade sbarrano il passo agli animali che si spostano.

Esattamente: si mette in difficoltà proprio la capacità del nostro paese di supportare una biodiversità di cui è ricco. Dovremmo però stare molto attenti perché questa biodiversità è molto minacciata. Un fenomeno sicuramente in crescita è la saturazione dei cosiddetti (con un brutto termine) spazi vuoti urbani: degli spazi aperti naturali, semi naturali, o anche a volte utilizzati a fini agricoli, all’interno del tessuto urbano. Sono importantissimi per varie ragioni: ad esempio per mitigare i fenomeni di calore estivo all’interno delle città; per assorbire l’acqua in eccesso e ridurre o mitigare i fenomeni di inondazione; per la qualità della vita di chi abita nelle città. Oggi si tende a costruire molto di più in questi spazi, quindi a densificare le già fragili città italiane.

È il fenomeno dei cosiddetti “incolti” che vengono visti dall’opinione pubblica come spazio sprecato. Stiamo entrando nel tema dei “servizi eco sistemici”: assorbimento delle acque, mitigazione del clima… Questi servizi sono quantificabili in termini di valore monetario? di PIL?

Sono quantificabili, con alcune difficoltà. A livello nazionale e internazionale abbiamo provato a fare delle stime di quanto perdiamo anche in termini economici. La stessa Commissione Europea parla di costi nascosti dell’impermeabilizzazione del suolo. Perché nascosti? Perché in realtà quando costruiamo, quando consumiamo il suolo, non ci facciamo carico delle conseguenze anche economiche di questa trasformazione. Prima si citava la capacità del suolo di fare infiltrare e trattenere l’acqua; di ridurre la temperatura nelle città; di produrre cibo; di produrre biomassa; in generale di fornire questi servizi eco sistemici che sono fondamentali per il nostro benessere, anche economico. Fare una stima non è mai semplice perché le risorse ambientali sono spesso non sostituibili, e quindi sicuramente non è pensabile di dare sempre un valore economico a queste risorse; però ad alcuni servizi sì. Abbiamo provato a farlo, arrivando a stimare in circa 2 miliardi di euro l’anno i costi che ci troveremo a pagare da qui in avanti, soltanto a causa delle trasformazioni degli ultimi cinque anni, perché le trasformazioni normalmente sono irreversibili. Mi spiego meglio: in cinque anni abbiamo costruito un certo quantitativo di chilometri quadrati. Questi chilometri quadrati di suolo, che precedentemente era naturale o agricolo, ci fornivano dei servizi eco sistemici che noi dovremo sostituire, perché quel suolo non ce li fornisce più. Quindi dovremo acquistare cibo da altre parti; dovremo trattenere l’acqua che prima tratteneva il suolo attraverso delle opere e dei collettori; dovremo raffrescare le case, le città attraverso il consumo di energia elettrica. Tutti i costi che in qualche modo noi ci troveremo a pagare da qui in avanti, finché non decideremo di tornare indietro con estrema difficoltà; perché queste trasformazioni, di fatto, causano danni spesso irrimediabili.

Lei ha usato due volte la parola irreversibile. Quanto si può recuperare un suolo che è stato cementificato? Basta semplicemente togliere l’asfalto, il cemento e lasciar fare alla natura? O si perde qualcosa in maniera definitiva?

Si può lasciar fare alla natura, però i tempi di recupero naturale sono lunghissimi. Per formare pochi centimetri di suolo naturale possono volerci centinaia di anni. Si stima che se oggi scavassimo di 20 centimetri un suolo naturale arriveremmo a toccare il suolo calpestato dagli antichi romani, o ancora prima. Quindi un recupero naturale di fatto non è pensabile, ma bisogna intervenire pesantemente attraverso il ripristino che, però, non assicura capacità completa di recupero. Sono situazioni che devono essere limitate al massimo, sia per ragioni economiche, sia perché il suolo è un elemento vivo, non facilmente ricostruibile dall’uomo. Quindi il primo obiettivo non è ripristinare. Intanto fermiamoci e riutilizziamo quello che abbiamo già costruito nel passato. Il nostro territorio è pieno di strutture, di edifici sottoutilizzati o vuoti e non utilizzati; di infrastrutture viarie dove il suolo è stato consumato nel passato e che oggi potrebbero essere riqualificate e riutilizzate. Le città hanno bisogno di interventi di rigenerazione urbana. Prima di costruire del nuovo, occupiamoci dell’esistente e tentiamo di migliorarlo, sfruttarlo e riutilizzarlo al meglio.

Da alcuni anni, nelle commissioni parlamentari e in aula, si discute di una legge contro il consumo di suolo. Sarebbe la prima. L’iter sta vivendo varie vicissitudini, non ultima quella del recente cambio di governo. L’ISPRA conoscete bene il testo che si sta portando avanti. Quali sono i punti chiave?

Noi abbiamo contribuito alla discussione parlamentare, in particolare nell’ambito delle commissioni competenti; e abbiamo analizzato i vari testi che sono stati presentati nel corso degli anni, in particolare gli ultimi testi presentati nel corso della corrente legislatura. Sono testi di diverso tipo, presentati dalle diverse forze politiche nelle commissioni Ambiente e Agricoltura. In generale tutti si concentrano sul raggiungere l’obiettivo di azzeramento del consumo di suolo: obiettivo imposto dall’Unione Europea entro il 2050. Il 2050 è sicuramente lontano nel tempo e i numeri che ho presentato ci mostrano l’urgenza di intervenire sin da subito con un forte ridimensionamento, o meglio un azzeramento, del consumo di suolo netto. Consumo di suolo “netto” non vuol dire azzerare le trasformazioni sul territorio, ma compensarle attraverso un recupero di territori precedentemente utilizzati. Molti testi di legge fanno proprio questa assunzione, nonostante le difficoltà a cui accennavamo per il recupero del suolo artificiale. Poi il testo si concentra sulle attività di monitoraggio in capo all’ISPRA e al Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente, alle agenzie delle regioni (ARPA, nda.) e delle province autonome, e si concentra su un sistema di definizioni che è uno dei punti critici dei vari testi. Durante la discussione parlamentare sono stati sollevate diverse obiezioni su questo punto, proprio perché le definizioni sono poco consolidate nella normativa nazionale delle regioni, e quindi presuppongono diverse accezioni di “consumo di suolo”. Soprattutto prevedono diverse esclusioni.

In pratica ci sono delle incongruenze fra ciò che l’Europa definisce “consumo di suolo” e ciò che questi disegni di legge italiani stanno mettendo nero su bianco. Possiamo fare degli esempi?

Ad esempio molte norme regionali, e alcune proposte di legge nazionale, escludono dal “consumo di suolo” il tema della saturazione urbana, quindi la perdita delle aree aperte e verdi in ambito urbano. Oppure escludono le grandi opere, o tutte le aree dove era già prevista una certa edificabilità. Che vuol dire questo? Nel corso degli anni i comuni hanno approvato strumenti urbanistici che prevedono espansioni e nuove edificazioni sul territorio agricolo. Oggi però molte di queste edificazioni non sono state realizzate, e quel suolo è ancora agricolo. Nel momento in cui si decidesse di trasformare quel suolo agricolo in suolo artificiale, l’ambiente ne risentirebbe; quindi quella è una forma di consumo di suolo. Non considerarlo tale è un problema dal punto di vista ambientale, ma lo fanno molti disegni di legge perché ritengono che quel suolo abbia già una sua previsione, quindi sia già perso. Sicuramente questo aspetto va affrontato, perché è ovvio che le situazioni siano diverse sul territorio e ci sono anche aspettative di persone che in qualche modo hanno investito su aree edificabili. Però non possiamo ritenere che quello non sia un consumo di suolo. Dovremmo in qualche modo far fronte a questo; limitare progressivamente il consumo fino ad arrivare a zero almeno nel 2050, se non prima. Ciò che non dobbiamo fare è “prenderci in giro” e dire che quello non è consumo di suolo, quando invece ovviamente noi quel suolo lo perdiamo, e con esso una risorsa ambientale che ci fornisce tutti quei servizi di cui parlavamo prima.

Come ha detto più volte abbiamo questo traguardo del 2050 che in effetti è lontano. Quanto sarebbe utile fermare prima, nei prossimi anni, il consumo di suolo? Le faccio presente che il termine “consumo di suolo” non è fra i 26 punti di programma del governo che si sta formando in questi giorni. Ce ne sono altri riferiti all’ambiente ma non il consumo di suolo, nonostante sia una legge che la maggioranza uscente ha portato all’attenzione del Parlamento. Quanto è urgente questo tema?

È urgente per varie ragioni. Oltre all’obiettivo europeo (del 2050, nda.) noi abbiamo sottoscritto anche gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite che ci chiedono di fermare il degrado del territorio e il consumo di suolo entro il 2030. Questo è un impegno formale che l’Italia ha preso. È urgente anche perché, continuando a consumare suolo, non soltanto perdiamo risorse ambientali ed economiche, ma aggraviamo la fragilità del territorio e aumentiamo la pericolosità idraulica. Se i nostri territori non sono più in grado di assorbire l’acqua, noi ne paghiamo le conseguenze. Spesso ci ricordiamo troppo tardi, quando le cronache riportano gli eventi catastrofici, che forse avremmo dovuto fare qualcosa prima. Fermare il consumo di suolo vuol dire anche evitare di aggravare certi problemi e quindi è assolutamente urgente che ci si metta mano prima possibile. Io penso e confido che il Parlamento e tutte le forze che, attraverso le loro proposte normative e gli atti della discussione parlamentare, hanno riconosciuto e riconoscono l’urgenza del fenomeno, possano arrivare all’approvazione di una legge urgente per il nostro paese.

Tratto da: http://www.earthday.it/Territorio/Il-consumo-di-suolo-costa-all-Italia-2-miliardi-l-anno