Perché la cementificazione del lungomare di San Lorenzo, in Calabria, sarebbe una sconfitta per tutti

di Paolo Pileri.

Seicentocinquanta metri da asfaltare lungo costa per diciotto di larghezza, una delle ultime coste italiche permeabili e libere dal cemento. Più o meno così potrei sintetizzare, per quel che ho letto, la vicenda della pretesa di cementificazione del lungomare di San Lorenzo a oriente di Reggio Calabria. Una storia emblematica che non deve sfuggirci perché è occasione per tutti di imparare qualcosa. Una storia che ha tutti gli ingredienti dell’inerzia culturale di una modernità che continua a rimanere aggrappata con le unghie a un modello di sviluppo fallito da tempo ma che è l’unico che si sa usare: quello dell’asfalto.

Meno male che ci sono i giovani e le associazioni che spesso fanno la differenza, come qui. Pensare oggi che un lungomare spettacolare come quello di San Lorenzo possa essere cinturato da una strada in asfalto è follia paesaggistica. Non solo perché si va a consumare suolo e a impermeabilizzare un’area che è in gran parte naturale o ripristinabile in senso naturale e naturalistico. Non solo perché si va ad offendere di nuovo un paesaggio che porta su di sé le cicatrici di un passato che gli ha voltato le spalle, che lo ha massacrato di inutile cemento, che ha lasciato campo libero a tutti quelli che volevano specularci facendoci villette, stabilimenti balneari abusivi o legittimi in forza di leggi sbagliate, parcheggi abusivi, piastra di cemento per vendite temporanee e così via.

Non solo perché si perpetua una ricetta che è la stessa che fa scappare i giovani da quelle zone, stufi marci di un potere che ha abbruttito territori in cui loro non si sentono più a casa. Non solo perché si copre di indifferenza e di spregio gli atti ufficiali di tutela del paesaggio e dell’ambiente naturale che, ricordiamolo, prima di essere dispositivi di legge sono pilastri culturali che ricordano a tutti, sindaci e governanti compresi, che la bellezza dei nostri paesaggi è così bella e rara che si è ricorso a un atto pubblico per tutelarla così che tutti possano ricordarsene e capire (sempre che la politica in primis veda nelle tutele ambientali dei bicchieri mezzi pieni e non bicchieri mezzi vuoti e ostacoli a un’arrugginita idea di sviluppo). Non solo perché si sprecano denari pubblici per proporre interventi che tutti nel mondo della sostenibilità hanno capito che incorporano più problemi che soluzioni. Se porti auto, porti rifiuti, porti inquinamento, porti litigi, porti ingorghi, porti incidenti, porti rumore. Se porti cemento porti caldo, porti grigio (o altri colori assurdi), porti durezza, porti bruttezza.

Ma soprattutto perché una strada asfaltata, con tanto di parcheggi e svincoli, è il biglietto da visita di un modello di vita e società che è quello della insostenibilità, un modello che non fa crescere culturalmente nessuno e che ci trascina nell’abisso della sciatteria e della miseria con cui in questo Paese purtroppo abbiamo trattato spesso la bellezza. “Vandali in casa” diceva Antonio Cederna puntando il dito contro noi stessi, cittadini e politici che si lasciano convincere dal cemento perché è più facile da fare, perché è quel che abbiamo sempre fatto, perché è comodo; che si lasciano bendare gli occhi dalle lusinghe della insostenibilità diventando artefici del nostro stesso fallimento, autori di quella bruttezza in cui poi ci accasiamo rinunciando a elaborare progetti più belli, dignitosi e rispettosi del nostro paesaggio che i nostri padri costituenti hanno messo tra gli articoli fondamentali della nostra Carta costituzionale: articoli che sono le gambe sulle quali si regge il tavolo migliore di questo Paese. Fare una strada di asfalto, cemento e auto davanti al blu di un mare unico significa dire alla gente che al mare si va in auto e che la bellezza si può offendere senza colpe. Significa non essere capaci di dire ai cittadini che camminare non fa male, ma bene.

Significa rinunciare a proporre ai cittadini di migliorare e di far capire loro che nessuno sta negando l’accessibilità al mare, ma che quella accessibilità può essere oggetto di un progetto più ambizioso in cui la bellezza, il rispetto per la natura, un fondo permeabile e naturale, la quiete possono essere i materiali migliori per disegnare un modo di stare in quei luoghi che diviene la cifra di una modernità che vuole stare nel futuro e non, di nuovo, proporci nel presente gli errori malefici che abbiamo fatto fino a oggi. Con le nostre scelte progettuali, noi parliamo ai cittadini, gli insegniamo qualcosa di bello o di brutto, li aiutiamo a crescere o a perdersi. Si può lavorare lungo le nostre coste con progetti che le accarezzano senza sfregiarle, che sono capaci di portare migliaia di persone senza vomitare rifiuti e brutture, che rispettano l’idea che il mare, la natura, le coste sono un bene di tutti e prima di tutto dei cittadini e non certo delle auto e del cemento. Il lungomare San Lorenzo incorpora in sé un pezzo di una grande scommessa nazionale lungo la quale oggi possiamo svoltare pagina e crescere o incaponirci nelle fallimentari e cementizie abitudini che ci portano dritti nell’inferno dell’incultura, a obbedire al “così fan tutti”, a nascondersi dietro leggi ingiuste che ci offrono sempre qualche deroga, qualche scappatoia per non essere sostenibili, ma sempre legittimi.

Quel lungomare possiamo farlo diventare il biglietto da visita di una Calabria diversa, di un Sud diverso, di un’Italia diversa. Occorre coraggio: tutti i cambiamenti richiedono coraggio. Occorre volontà e senso civico per spezzare le catene dell’incultura e dell’abitudine al brutto. Abbiamo bisogno di politica che voglia questo, di intellettuali e cittadini che vogliano questo e non più il resto. Queste righe sono quindi un appello a desistere da quel cemento inutile che va a ferire mortalmente quell’ultimo scampolo di bellezza nella quale possiamo specchiarci ancora. Le cose cambiano, cambiandole.

Tratto da: https://altreconomia.it/san-lorenzo-cemento-lungomare/