Un possibile Manifesto per il futuro dei territori alpini ancora incontaminati

di Piero Vallenzasca, Sezione VCO di Italia Nostra.

Il tema esula da quello solito della difesa del paesaggio dei territori alpini incontaminati, abitualmente oggetto di repliche che si riconducono ad una contesa, argomentata in genere con luoghi comuni, tra i rappresentanti delle comunità locali, tradizionali difensori e propugnatori dello sviluppo economico, e gli ambientalisti raffigurati da salotto, e qualcuno pure potrebbe esserlo, che nulla avrebbero da perdere, accusati di voler ridurre la montagna a riserva indiana.

Il tema, invece, è anche economico, trattato però dalla parte delle popolazioni, ahinoi residue, che vivono in quei territori; territori che paiono diventati l’oggetto di un contendere tra chi dice che li si vorrebbe ibridare in un immobilismo secolare e chi vorrebbe invece fare, anche nelle ultime porzioni incontaminate, l’oggetto di un progetto economico/industriale che ne garantirebbe il sicuro successo.

Il modello di sviluppo industriale ed economico a cui queste ultime tesi si ispirano sarebbe un modello di importazione, costruito al di fuori non solo dal confronto con la cultura alpina entro la quale dovrebbe crescere, ma anche con quella degli stessi rappresentanti delle comunità, che più che discutere sembrano ansiosi di approvare.

Si osserva che nello scenario di una industrializzazione turistica alpina mancherebbero due elementi: il coinvolgimento culturale da un lato e il progetto politico dall’altro.

Mancando questi ci si affida a quei progetti che abbiamo definito di importazione, ai pacchetti preconfezionati, più o meno bene, che dovrebbero, senza fatica, e questo è importante, provvedere ad ogni necessità, consegnando chiavi in mano un futuro radioso e prospero anche per le popolazioni che sono la base del consenso dei propugnatori e decisori politici di queste prospettive.
Se così è o se così fosse, ci assoggetteremmo molto volentieri a questa cordata di volonterosi, ma il tema temiamo sia un po’ più complesso.

Lo spopolamento alpino non è una questione di oggi; è un fatto antico, stratificato, figlio di migrazioni, da ultimi decenni è figlio del crollo della natalità, preceduto immediatamente prima dalla fuga di massa dalla economia tradizionale, trascinata verso il basso dall’industrializzazione post bellica dei territori più avvantaggiati.

La fragilità di oggi delle risorse umane che vivono la montagna – fragilità in ogni senso: demografica, anagrafica, scolastica, professionale… – è una delle cause, se non la prima, della persistente e, in alcuni territori, crescente marginalità.
Essa ha seguito la caduta demografica, è la figlia dello spopolamento alpino che ha drenato verso il basso energie, economie, risorse umane produttive e culturali, desertificando territori che i secoli del passato hanno attraversato con alterne fortune; da momenti di prosperità a momenti di fame, ma che sul piano della coesione erano riusciti sempre a vivere.

Se questo è vero, il primo investimento cui pensare dovrebbe essere quello della ricostruzione del capitale umano, la riattivazione di comunità intraprendenti, la costruzione condivisa di un progetto, culturale prima ancora che industriale, che sappia ricondurre le comunità entro una nuova economia, partendo dalle valenze del territorio, coniugate in forme moderne, collegate ad una rete senza confini, riappropriate alle vecchie e nuove professionalità, rivitalizzate nei segni materiali della colonizzazione antica di quei territori e che una domanda esterna in ascesa è pronta a cogliere, apprezzare e premiare.

Che c’entra un progetto di sviluppo turistico/industriale con tutto questo ?
Non c’entra nulla. Lascerebbe le comunità vere al margine di quell’ondata di risorse da usare, per lo più spendibili altrove, che una volta investite, drenerebbero gli eventuali utili verso altre destinazioni, probabilmente finanziarie, sicuramente esterne ai territori di loro accumulazione.

Il popolo alpino in tutto questo non ci sarebbe o ci sarebbe poco, affatto coinvolto dai processi di investimento, una sorta di spettatore non partecipe; altri più pronti, magari più intraprendenti, più attrezzati ne prenderebbero il posto, mentre il primo verrebbe destinato a forza lavoro, per lo più, di basso livello.

Intanto la risorsa più importante di cui dispone, il bene comune, sarebbe impoverita, depotenziata rispetto alla sua capacità attrattiva all’interno del mercato della domanda in crescita, connesso in rete, dove il bacino di utenza non ha confini e di fatto è illimitato.

Non discutiamo della bontà e della sostenibilità economica di un progetto industriale; chi lo mette in campo avrà pure fatto i suoi conti e lo avrà ritenuto sostenibile, in fondo in giro c’è ne sono tanti, più o meno funzionanti, più o meno fallimentari; potrebbe anche essere perfetto, ma il contrasto è l’affermazione che quel modello non può far rinascere il territorio in termini civili e culturali.

Il soggetto su cui far ricadere questa responsabilità, il soggetto colpevolmente assente è, paradossalmente, quello dei governi, specie locali, perché si appropria di un progetto altrui e neppure si cimenta a costruirne uno proprio, ma lo delega.
Dimentica il mandato ottenuto, rinuncia a disegnare un modello che insieme all’economia ricostruisca coesione e cultura. E’ la democrazia dei processi che si estingue e i governi locali sono i grandi assenti mentre diffondono un messaggio di preavviso ad evitare turbamenti impropri rispetto ad un percorso in realtà già, altrove, deciso.

Gli scenari alternativi e possibili sono, invece, accattivanti e non utopici, realisti e realizzabili; certo non viaggiano con la velocità di un progetto industriale, hanno il passo alpino, richiedono un approccio attento, lento, continuo, risorse; ma perché non mettere queste ultime anche qui, se sono così tante e disponibili e vogliose di essere spese nei modelli di investimento industriale ?

Sarebbe quindi compito dei governi, ai diversi livelli, costruire il modello; fare le analisi, indicare gli obiettivi, disegnare i percorsi, quantificare le risorse, valutare i ritorni, calcolarne i tempi, coinvolgere la loro gente, le popolazioni insediate, perché per questo sono chiamati, non per altro.

Il contenitore esiste; frutto della creazione o dell’evoluzione, a seconda delle opinioni; esso è gratuito e disponibile. La sua non fungibilità dovrebbe garantirlo, preservarne il marchio di origine, renderlo inalienabile, immodificabile.
Ha un valore e, come tutte le cose di valore, se si desiderano averle bisognerebbe almeno pagarle, invece sembra possa essere messo in offerta gratuita, ma qui le comunità dovrebbero rivoltarsi, chiedere almeno il prezzo di un risarcimento.

Il tempo sembra uno spreco; non c’è, occorre decidere ciò che è già stato deciso.
Bisognerebbe invece ricostruire, dove il prefisso non è tanto o non solo segno di una materialità diroccata, di una archeologia alpina purtroppo diffusa, ma di una comunità indebolita.
Bisognerebbe guardare alla nuova domanda di turismo, offrirle una risposta ricettiva ampia, orizzontale.
Bisognerebbe coniugare, stretto, il recupero materiale con il suo uso economico, diffuso, equo.
Bisognerebbe ridare il fiato ai borghi spopolati, offrirli ad un turismo che non assimili e inglobi, ma che cerchi e apprezzi.

Bisognerebbe insegnare alle generazioni future le nuove professioni o quelle meno nuove, da innovare.
Bisognerebbe disseminare i servizi al turismo, e non solo ad esso, diffondere le nuove tecnologie, rifondare le culture passate, i lavori antichi modernizzati, rianimare sentimenti ormai spenti.
Bisognerebbe riaprire le scuole per tanti, non per i pochi rimasti; impossessare i giovani di lingue, mandarli a viaggiare per rivederli tornare.

Bisognerebbe non fondare una riserva indiana, ma una comunità accogliente, preparata, moderna, cui la globalizzazione non sottrae, offre. Un modello dove anche le innovazioni forti ci possono stare, anzi ci starebbero, anzi ci devono stare come una mobilità motorizzata sottratta a beneficio dell’ arroccamento a fune che sposti a fondo valle i luoghi dello scambio del trasporto e che insieme rivitalizzi quei centri di scambio ridandogli funzione e scopo.

Più su più nulla, l’accesso come un’avventura ignota, l’oggetto dell’offerta che viaggia lungo la rete mondiale; il core business che attrae perché non contaminato; la creazione o l’evoluzione, la scelta è sempre disponibile, che genera valore, restituendo benessere, dignità e consapevolezza a chi è rimasto e a chi ritornerà e a chi non vorrà andarsene.