Come la mettiamo col consumo di suolo

di Marco Talluri.

Il Rapporto del Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente sul consumo di suolo 2021 si conferma come uno dei monitoraggi chiave della salute dell’ambiente in Italia. E inizia anche ad affrontare una delle contraddizioni più evidenti di una transizione ecologica che si fondi prevalentemente sulle fonti rinnovabili elettriche intermittenti.

Recentemente il Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente ha presentato l’edizione 2021 del Rapporto sul “Consumo di Suolo in Italia”, con i dati relativi al 2020, mettendo al contempo a disposizione i dati aperti relativi agli anni dal 2006 al 2020.

Anche nel 2020, l’anno del lockdown, la velocità di copertura artificiale è statadi 2 mq al secondo, in valore assoluto il suolo consumato in più nel 2020 rispetto aLl 2019 è stato di oltre 50 chilometri quadrati. Ormai risulta impermeabilizzato il 7,11% del territorio nazionale rispetto al 6,76% del 2006. Secondo il rapporto “ogni italiano ha a disposizione circa 360 mq di cemento (erano 160 negli anni ’50).”

Michele Munafò, come responsabile dell’Area “Monitoraggio e analisi integrata uso suolo, trasformazioni territoriali e processi desertificazione” dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, e coordinatore della rete di monitoraggio del territorio e del consumo di suolo del Sistema Nazionale per la Protezione Ambientale, è stato responsabile scientifico degli otto rapporti nazionali su consumo di suolo prodotti da ISPRA, a lui ci siamo rivolti per approfondire i temi trattati dal rapporto.

Per iniziare, un chiarimento: per far sì che chi parla e chi ascolta (in questo caso chi leggeràe l’intervista) interpreti correttamente quello di cui si parla, vuole spiegarci cosa si intende per consumo di suolo nei vostri rapporti?

Con consumo di suolo si intende la perdita di aree agricole, naturali e seminaturali a causa di nuove coperture artificiali. Un processo prevalentemente dovuto alla costruzione di nuovi edifici, fabbricati e insediamenti, all’espansione delle città, alla densificazione o alla conversione di terreno entro un’area urbana, all’infrastrutturazione del territorio e ad altri interventi di impermeabilizzazione e di artificializzazione del suolo. Molti cambiamenti di uso e di sfruttamento del suolo, la riduzione della sostanza organica a causa di pratiche agricole intensive e non sostenibili, la progressiva perdita della produttività, l’erosione, la salinizzazione, la contaminazione e molti altri fattori portano, in generale, al degrado del suolo, alla perdita della sua capacità di fornire servizi ecosistemici e di supportare la biodiversità. Il consumo di suolo è, tuttavia, la forma più impattante e irreversibile tra le diverse cause di degrado di questa limitata e preziosissima risorsa ambientale e, anche per questo, è stato tra i temi su cui, giustamente, si è posta molta attenzione negli ultimi anni.

È infatti ben riconosciuto l’impatto negativo di questo fenomeno, che contribuisce significativamente ai cambiamenti climatici e limita fortemente la capacità di adattarvisi. Inoltre, aumenta il rischio e la pericolosità dei fenomeni di dissesto, limita la capacità di regolare i principali processi ambientali, riduce la disponibilità di terreni fertili e produttivi occupando superfici che erano utilizzate per la produzione agricola e dunque rendendo sempre più irraggiungibile l’autosufficienza alimentare. In generale, spesso incide negativamente sul benessere e sulla qualità della nostra vita.

Vuole spiegare meglio perché è importante contrastare il consumo di suolo?

Il Parlamento europeo ha formalmente richiamato pochi mesi fa gli stati membri a rispettare i loro impegni internazionali ed europei relativi al suolo e, in particolare, ad azzerare il consumo di suolo netto entro il 2050. Il consumo di suolo netto è valutato attraverso il bilancio tra il consumo di suolo e l’aumento di superfici agricole, naturali e seminaturali dovuto a recupero, demolizione, de-impermeabilizzazione, rinaturalizzazione o altri interventi in grado di ripristinare le funzioni naturali del suolo.

Le azioni relative al suolo e al territorio sono prioritarie anche a livello globale. Tra i 17 obiettivi stabiliti dall’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, c’è anche quello di non aumentare il degrado del suolo e di mantenere il tasso di variazione del consumo di suolo al di sotto di quello della popolazione. In un paese in una fase di marcata decrescita demografica come il nostro, questo si traduce in un impegno ad azzerare il consumo di suolo in meno di dieci anni e a procedere spediti verso il ripristino degli ecosistemi degradati.

Anche in Italia, con l’invio del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) alla Commissione Europea, il Governo si è impegnato formalmente ad approvare una «legge nazionale sul consumo di suolo in conformità agli obiettivi europei, che affermi i principi fondamentali di riuso, rigenerazione urbana e limitazione del consumo dello stesso, sostenendo con misure positive il futuro dell’edilizia e la tutela e la valorizzazione dell’attività agricola». Una legge che, se riuscisse ad arrestare finalmente ed efficacemente il consumo di suolo nel nostro Paese, permetterebbe di fornire un contributo fondamentale per affrontare le grandi sfide poste dai cambiamenti climatici, dal dissesto idrogeologico alla sicurezza alimentare, dall’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo al diffuso degrado del territorio, del paesaggio e dell’ecosistema.

Cosa emerge in sintesi dal rapporto 2021 che avete presentato?

Ancora oggi, si continua a trasformare il territorio nazionale con velocità elevate e, nel 2020, secondo gli ultimi dati rilevati da ISPRA e dal Sistema Nazionale per la Protezione Ambientale, nuovi cantieri, edifici, insediamenti commerciali, logistici, produttivi e di servizio, infrastrutture e altre coperture artificiali hanno portato alla perdita di suoli naturali per 56,7 chilometri quadrati, ovvero, in media, quasi due metri quadrati di suolo al secondo. Un incremento che, neanche i mesi di blocco di gran parte delle attività durante il lockdown hanno ridotto e che rimane in linea con quello rilevato nel recente passato. Una crescita delle superfici artificiali solo in piccola parte compensata dal ripristino di aree naturali, pari nell’ultimo anno a cinque chilometri quadrati, dovuti al passaggio da suolo consumato a suolo non consumato (in genere grazie al recupero di aree di cantiere o di superfici che erano state classificate in precedenza come “consumo di suolo reversibile”).

La copertura artificiale del suolo è ormai arrivata a estendersi per oltre 21 000 chilometri quadrati, pari al 7,11% del territorio nazionale (era il 7,02% nel 2015, il 6,76% nel 2006), rispetto alla media UE del 4,2%. Le conseguenze sono anche economiche e i “costi nascosti”, dovuti alla perdita dei servizi ecosistemici che il suolo non è più in grado di fornire a causa della crescente impermeabilizzazione e artificializzazione degli ultimi otto anni, sono stimati in oltre tre miliardi di euro l’anno. Valori che sono attesi in aumento nell’immediato futuro e che potrebbero erodere in maniera significativa, per esempio, le risorse disponibili grazie al programma Next Generation EU. Si può stimare, infatti, che se fosse confermato il trend attuale e quindi la crescita dei valori economici dei servizi ecosistemici persi, il costo cumulato complessivo, tra il 2012 e il 2030, arriverebbe quasi ai 100 miliardi di euro, praticamente la metà dell’intero PNRR.

Veniamo ad un tema particolarmente di attualità. Gli obiettivi di decarbonizzazione comportano la necessità di realizzare nuovi impianti per la produzione di energie da fonti rinnovabili, quali impatti producono questi impianti in termini di consumo di suolo?

L’obiettivo di fermare il consumo di suolo si scontra anche con la necessità di perseguire la transizione energetica e investire fortemente su nuovi impianti di energia da fonti rinnovabili, che potrebbero, a loro volta, portare a un incremento significativo delle superfici artificiali. I nuovi impianti fotovoltaici installati a terra nel 2020 hanno portato a un nuovo consumo di suolo agricolo pari a 1,8 chilometri quadrati per una potenza stimata di poco meno di 100 megawatt, un dato non molto distante dai due chilometri quadrati rilevati nel 2019. Ma le prospettive di crescita sono significative e, tra le misure previste all’interno del PNRR e gli obiettivi del Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC), che probabilmente saranno rivisti al rialzo, ISPRA e il Gestore Servizi Energetici (GSE) stimano una perdita compresa tra i 200 e i 400 chilometri quadrati di aree agricole entro il 2030 per il fotovoltaico a terra, a cui se ne aggiungerebbero, secondo Enel, altri 365 destinati a nuovi impianti eolici. Superfici così estese impatteranno negativamente su diversi servizi ecosistemici del suolo e lasceranno un’impronta indelebile sul paesaggio per gli anni futuri.

Per quale motivo il rapporto Ispra sul consumo di suolo prende in considerazione i problemi attuali e futuri del consumo di suolo provocato dal fotovoltaico e non fa la stessa cosa con l’eolico che, secondo la valutazione degli Amici della Terra, rappresenta un fenomeno di consumo di suolo anche più grave, considerando la collocazione delle pale in aree fragili e di particolare pregio naturalistico?

Attualmente il sistema di monitoraggio del SNPA non considera gli impianti eolici separatamente da altri fabbricati e quindi non abbiamo stime su questo fenomeno, a differenza del fotovoltaico. In generale, l’impatto diretto sul consumo di suolo di un impianto eolico è di per sé basso, ma è, invece, molto elevato l’impatto sia dei cantieri necessari per la costruzione, sia delle infrastrutture necessarie per raggiungere l’impianto stesso. Ma nel nostro sistema di monitoraggio, che si basa sulla classificazione di immagini satellitari, le infrastrutture vengono considerate tutte in un’unica categoria di cui viene valutata la superficie utilizzata, indipendentemente dallo scopo che ha portato alla realizzazione dell’infrastruttura, così come anche i cantieri rientrano in un’unica categoria.

Tornando al fotovoltaico, ci sono soluzioni possibili?

Eppure uUna buona parte dei tetti degli edifici esistenti, gli ampi piazzali associati a parcheggi o ad aree produttive e commerciali, le aree dismesse o i siti contaminati, rappresentano esempi evidenti di come sarebbero facilmente coniugabili la produzione di energia da fonti rinnovabili e la transizione energetica, con la tutela del suolo, dei servizi ecosistemici e del paesaggio, in prospettiva di una vera transizione ecologica che non tenga in considerazione solo alcuni obiettivi specifici spostando l’impatto su altre risorse. Solo considerando i tetti degli edifici (circa 3 500 chilometri quadrati in Italia al di fuori dei centri urbani), ISPRA stima che quelli dove sarebbe possibile installare nuovi impianti siano compresi tra i 700 e i 900, escludendo le aree non utilizzabili e assicurando le distanze necessarie alla manutenzione, con una potenza variabile dai 66 agli 86 gigawatt. A questa potenza si potrebbe aggiungere quella installabile in aree di parcheggio, in corrispondenza di alcune infrastrutture, in aree dismesse o in altre aree impermeabilizzate, senza aumentare il consumo di suolo. Anche ipotizzando che sul 10% dei tetti sia già installato un impianto, si può concludere che ci sarebbe una potenza fotovoltaica potenzialmente compresa fra 59 e 77 gigawatt, un quantitativo sufficiente, secondo il GSE, a coprire il doppio di quanto previsto dal Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC), che individua per il fotovoltaico un obiettivo di circa 52 gigawatt installati al 2030, cioè 30 in più dell’attuale livello (22 gigawatt).

La transizione energetica, quindi, non ha necessità di consumare altro suolo agricolo e naturale e si potrebbe facilmente coniugare con gli obiettivi di protezione del suolo e delle risorse naturali, del mantenimento della produzione agricola e della tutela del paesaggio. Anzi, potrebbe essere un’ulteriore occasione di riqualificazione degli edifici e di rigenerazione del patrimonio costruito esistente.

Tratto da: http://astrolabio.amicidellaterra.it/node/2468