A cura dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli e di Italia Nostra.
Un colpo di spugna azzera le acquisizioni culturali e le esperienze stratificate nel tempo per la tutela dei centri storici. È questo il disastroso risultato che si avrebbe se il testo unificato sulla rigenerazione urbana, attualmente in esame alla XIII Commissione del Senato, venisse definitivamente approvato. Non solo: il provvedimento darebbe un ulteriore e decisivo contributo alla deregolamentazione rinvenibile nella più recente legislazione, nazionale e di molte regioni, che viola le regole fondamentali del governo del territorio.
Le autentiche finalità che il testo persegue, in manifesta contraddizione con i buoni propositi disseminati nelle premesse, mirano a favorire l’incremento delle prospettive economiche delle iniziative private in campo edilizio-immobiliare a discapito sia degli interessi generali (la tutela del patrimonio culturale e paesaggistico, la dotazione di spazi pubblici e di uso pubblico), sia degli interessi dei residenti, specie se inquilini.
Com’è noto, la cultura italiana ha da tempo riconosciuto il valore specifico dei tessuti insediativi antichi sotto il profilo storico-documentale e paesaggistico anche in assenza di rilevanti beni architettonico-artistici. In tal senso, i centri storici sono componenti essenziali di quel patrimonio di cui l’art. 9 della Costituzione impone la tutela conservativa. Nel disegno di legge la sola diversità dei centri storici rispetto al resto del territorio comunale si limita a subordinare gli interventi privati, diretti su singoli immobili o su ambiti urbani scelti dal proponente, a un atto di programmazione di competenza comunale anche in variante dello strumento urbanistico. A conferma della mancata volontà di assoggettare a un regime di maggiore cautela i centri storici, si dispone che la programmazione comunale comporta per quegli ambiti l’intesa con la Soprintendenza dei beni culturali e del paesaggio, escludendo però l’autorizzazione paesaggistica per i singoli interventi. Nessun riconoscimento ai luoghi della memoria collettiva di cui è testimonianza l’edilizia costruita prima dell’ultimo conflitto che la sottragga a nuove forme speculative. Queste possono trovare legittimazione alterando o peggio, demolendo e ricostruendo, edifici ormai componente consolidata dell’ambiente urbano, senza protezione da possibili stravolgimenti nelle destinazioni d’uso. In aggiunta, i cospicui incrementi dei valori immobiliari conseguibili sostituendo e accrescendo i volumi esistenti si tradurrebbero in pesantissimi costi sociali per i residenti, spesso costretti a trasferirsi.
Sul resto del territorio le deroghe diventano una modalità ordinaria. Nei fatti, la rigenerazione urbana è affidata al protagonismo dei privati: a loro è concessa la possibilità di intervenire su singoli edifici in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici, senza neppure ancorare tale facoltà a parametri dimensionali o qualitativi (quanta volumetria in più e quale modifica alle destinazioni d’uso), potendo per di più beneficiare degli “eventuali incentivi stabiliti dalla legislazione regionale”. La norma consente ai privati, non soltanto interventi diretti, ma anche di presentare proposte per “ambiti territoriali” che potranno essere valutate pure in mancanza della programmazione comunale, con margini di iniziativa che dalla scala edilizia invadono quella urbana.
In sintesi, viene codificato fino all’inverosimile il vantaggio degli interessi speculativi ma anche il danno alla collettività.
Un testo da abbandonare o da sottoporre a radicale riscrittura.