Lontano da Farinetti. Storie di Langhe e dintorni

C’è un filo rosso che accompagna e che unisce tutti i libri di Fabio Balocco: quello della volontà di dare voce a chi voce non ha: le piante, gli animali, i poveri, il paesaggio. Soggetti che inviano messaggi ma senza utilizzare le parole e che Balocco – che non si definisce scrittore, ma divulgatore – trasforma, semplicemente, come farebbe una cassa di amplificazione.

In “Lontano da Farinetti. Storie di Langhe e dintorni” (editore Il Babi) Balocco ha deciso di dare la voce a quella che potremmo chiamare «l’altra Langa» (“Langa” come vezzeggiativo per sintetizzare l’intero territorio delle “Langhe”).

Ma cos’è «l’altra Langa»? Facile e al contempo difficile spiegarlo, perchè qui la questione non è di bianco e nero, di sale e zucchero, di pro e contro: diciamo che non è la Langa dei possedimenti di Oscar Farinetti (Borgogno e Fontanafredda), cioè la Langa esportata in tutto il mondo con le sue colline perfettamente pettinate, ma la Langa minore. Minore perchè meno in vetrina e meno ricca. Ma certamente più autentica e popolata di persone che hanno saputo ricercare l’essenza della vita andando a scovare radici formate attorno alla sobrietà, alla solidarietà, al rispetto dei ritmi della natura e in armonia con il territorio, con il paesaggio e con i propri simili.

Sedici testimonianze raccolte nell’arco di due anni; in Langa, ma anche in prossimità della Langa (da qui il sottotitolo). Storie, dunque. Storie di vita vissuta e di vita da percorrere e sfogliare, giorno dopo giorno. Le storie dei giovani Bruno e Lucia (con l’amico fraterno Gianluca) che decidono di ristrutturare una cascina a Ceva e di farla diventare luogo di riunione di altra gioventù, alternando la lavorazione artigiana del legno con l’attività circense e l’agricoltura famigliare; di Alessandro Mortarino, che sceglie di svestire i panni di navigato editore di periodici per iniziare ad usare le mani e godere del contatto con la terra o la calce, offrendo la sua esperienza da giornalista/comunicatore alle attività di Movimenti e Associazioni come il Forum nazionale Salviamo il Paesaggio; di Paolo Montrucchio, ingegnere di talento creativo che sta ora sperimentando l’ipotesi di una vita da agricoltore – moderno ma rispettoso – nella sua Cascina del Risveglio; di Gianna e Fiorenzo, che hanno abbandonato le colline attorno a Barbaresco per realizzare il sogno di abitare una cascina realizzata con le loro mani nell’Alta Langa, a contatto con la natura; dei coniugi Ricchiardi, che hanno speso la loro vita alla ricerca dell’essenzialità e l’hanno concretizzata a Murazzano in una piccola casa di pietra nel mezzo di un bosco solitario; di Mauro Musso, che da dipendente di un supermercato si è trasformato in uno dei migliori pastai di Langa, inseguendo la piena salubrità per l’alimentazione umana attraverso il sapiente utilizzo di ingredienti primari coltivati con passione; di Giovanni Scaglione, piccolo viticoltore biologico di qualità a Loazzolo in terreni addirittura diventati Oasi del WWF e curati con cavalli anzichè trattori, in cui trionfa la biodiversità; di Leonardo Marengo, il giovane che ha scelto di vivere in una grande cascina sulle sponde del Belbo, fra piante ed animali, praticando il silenzio e la spiritualità per riconnettere la giusta armonia tra l’infinitamente grande dell’universo e l’infinitamente piccolo delle cellule che compongono il tessuto di un filo d’erba; di Serafina Terreno, che ha inconsapevolmente riportato la coltivazione dello zafferano a Murazzano, rivitalizzando una tradizione ormai perduta; di Gino Scarsi, pacifista, fabbro, cofondatore del Movimento Stop al consumo di territorio che, con un gruppo di amici, ha collettivamente acquistato oltre 200mila metri quadrati di boschi nelle Rocche del Roero per trasformarli in un’Oasi fruibile da tutti; di Alberto Ricca, apicoltore, agricoltore, accompagnatore turistico a piedi o in bicicletta, gran conoscitore della Langa che non sa ancora cosa «farà da grande»; di Vittorio Delpiano, detto Toio, sacerdote (ma non usate con lui questa espressione…), gran conoscitore di legni del territorio ed esperto costruttore di muretti a secco; di Ferruccio Fresia, che pianta gli alberi vicino alla cascina che recuperò decine di anni addietro sognando nuovi immensi boschi di faggio; di Beppe Marasso, storico protagonista delle battaglie del movimento pacifista, che vive a Neive fra vigne, noccioli e orti che ogni giorno ospitano la collaborazione curiosa di giovani e non più giovani amici desiderosi di comprendere il segreto dell’ «ora et labora»; di Bruno Carbone, più noto come «il Brav’om», forse l’ultimo cantastorie di Langa.

Sedici voci che testimoniano che una vita diversa è possibile, a contatto con la natura e in armonia con i propri simili. A patto che le scelte di vita non siano dettate dal tintinnare della moneta…

La prefazione di Marco Revelli

Ne ha fatta, di strada, Fabio Balocco, nella sua lunga ricerca delle “belle persone” di Langa. L’ha girata in lungo e in largo quella terra impregnata di lavoro, fatica, ricordi e letteratura, dal basso all’alto, dal livello del Tanaro su su fino alla displuviale da cui con lo sguardo si può già sfiorare il mare, lungo strade e per luoghi che appartengono un po’ alla mia infanzia perché erano quelli visitati, mezzo secolo fa, da mio padre quando raccoglieva le testimonianze del Mondo dei vinti e poi dell’Anello forte: la mitica Pedaggera, nel tratto che collega Bossolasco con Murazzano, o Neive dove la collina sale verso il cucuzzolo del Mattarello, o le rive del Belbo e ancora Borgomale lungo la provinciale Alba-Cortemilia (dove alla metà degli anni ’70 erano arrivate le “calabrotte”) e Cissone, arrampicato sulle cime… Luoghi in cui sembrava – soprattutto nelle terre alte, nell’Alta Langa – che la vita si stesse ritirando per sempre e che l’antica civiltà contadina si piegasse, vinta, e dove invece la storia non ha esaurito il suo giro, perché di “belle persone” Balocco ne ha trovate.

Non tantissime, non l’immensa schiera che sarebbe necessaria per rimpiazzare il grande esercito che l’industrializzazione selvaggia dei tardi anni cinquanta e degli anni sessanta aveva strappato alla campagna e alla collina per trasferirli in fabbrica, ma un numero sufficiente per farci pensare che il deserto non è cresciuto così tanto da instaurare un totale silenzio del senso. Voci che meritano di essere sentite e vite che meritano di essere vissute sopravvivono ancora, anzi ritornano, in un paesaggio fisico e sociale certo trasformato, occupato – nella Bassa Langa – da un’economia ricca e invadente, quella dell’agricoltura industrializzata e “pesante” che ha preso il posto della tradizionale piccola proprietà contadina, e in parte desertificata – nell’Alta Langa – dove le ampie macchie dello spopolamento mostrano tutti i segni dell’abbandono, ma dove, nell’uno e nell’altro emisfero di questo microcosmo densissimo, brillano tuttavia cristalli di esperienza diversa. Storie che devono essere raccontate, perché parlano di un modo diverso di vivere il presente e di immaginare il futuro.

Chi sono questi anomali narratori, che emergono come voci distinte di un coro agreste, dalle pagine di questo libro? Sono, potremmo dire, “figure del limite” – come “terre del limite” erano state queste fino ai tempi della Malora o della Luna e i falò -: donne e uomini che sanno vedere proprio perché guardano da una prospettiva “altra” rispetto a quella prevalente. Persone che hanno, ognuna, una storia propria, una scelta alle spalle, un progetto davanti, che non si annega nel senso comune e nell’affidarsi alla corrente che scorre, al mainstream potremmo dire. Gente che cerca, oltre la linea d’ombra del guadagno facile che devasta l’habitat, della monocultura che spegne i saperi e la qualità, del cemento che cresce nelle vigne con il grigio tra i filari che ha sostituito il color bruno del legno dei pali di sostegno… Gente che con tutto ciò ha preso le distanze, con la stessa testarda determinazione dei vecchi di questi paesi quando ripiantavano la vigna dopo una grandinata disastrosa.

Quasi tutti si sono ricostruiti la casa con le proprie mani, come avevano a loro volta fatto generazioni e generazioni di contadini; qualcuno arriva da lontano, ha nella propria biografia familiare la migrazione e l’esperienza operaia; altri vengono da vicino, ma hanno alle spalle un lungo percorso esistenziale di allontanamento dai “canoni comuni” della propria vita precedente; altri ancora hanno esperienze d’impegno culturale e di militanza politica “alternative”, o nel sangue quel “nomadismo” che è il tratto comune a eretici e ribelli (di cui nel passato queste terre furono rifugio)… Tutti vedono comunque chiaro il “modello negativo” da cui vogliono scansarsi, che abbiano trovato la propria vocazione dell’attività casearia o nell’amore degli animali, in una vinificazione di qualità agli antipodi rispetto a quella del barrique e della disseminazione selvaggia dei vigneti fino a mangiare gli ultimi centimetri ai bordi delle strade, o nell’insegnamento dell’arte circense e di strada. Tutti sanno di aver scelto di camminare controcorrente (“Dicevano che eravamo pazzi perché allora scappavano tutti dalla campagna. La terra la disprezzavano”, dicono). Nessuno nasconde la propria “anomalia” o sottovaluta le difficoltà di una tale condizione (“se vogliamo qui la lotta è anche più dura, perché in fondo noi siamo quelli strani, quelli diversi”). Ma le loro vite, dal racconto che ne fanno, emanano un senso di serenità impossibile da trovare tra le maggioranze “normali”, come di chi ha finalmente trovato il proprio posto, varcando un confine invisibile per uscire dall’universo dell’insensato ed entrare nel territorio del “senso”.

Un senso – un principio di “ragione naturale” – impossibile da trovare nel paesaggio umano sconvolto delle aree urbane e metropolitane, dove la vita si è fatta appunto vuota, essiccata e nevrotica, dominata da insoddisfazione e spesso rancore, prosciugata da una velocità senza direzione, in cui accelerare è la condizione per non arretrare. Quelle stesse aree cosiddette “forti” che pretenderebbero di imporre le proprie regole e il proprio stile anche in questo spazio dell’altrove, pervertendone gli equilibri, avvelenandone l’habitat, sconvolgendone i ritmi, cancellando le tracce di quelle radici lunghe che hanno fatto della Langa ciò che è stata fino ad ora e che, proprio nel momento in cui viene riconosciuta “patrimonio dell’umanità”, rischia di perdersi, sotto i colpi di una logica industrialista che non si limita più ad attirarne lontano le braccia (come negli anni sessanta e settanta) ma che vorrebbe mutarne l’anima, dettarne i codici per restare economicamente “all’altezza”, contaminarne le relazioni interpersonali fino a dissolvere le ultime tracce di comunità sopravvissute.

I testimoni di questo libro prezioso non sono “il mondo” (e lo sanno bene). Ma sono “un mondo”: l’unico, io credo, che possa aspirare ad avere un futuro (e a mostrarlo a tutti noi), oltre il muro cieco del presente.

Lontano da Farinetti. Storie di Langhe e dintorni
di Fabio Balocco
Il Babi Editore
176 pagine – euro 15,00